Questa settimana di tardivo gelo cade prima delle elezioni. Tornata di freddo e tornata elettorale coincidono. E questa coincidenza genera una riflessione che si solleva dallo strepito mediatico della captazione del voto per aprirsi a un’atmosfera opposta, di silenziosa, insopprimibile considerazione della condizione umana da un’altra prospettiva. Forse a ispirarla è questo cielo basso, bianco – così strano nell’essere attraversato dalla luce del giorno già di tanto allungatosi, nel progredire verso l’equinozio – e consiste in questo: ogni anno a fine inverno si fa la conta dei senza casa morti per freddo.
Per i credenti il freddo, a volte unito per gli homeless all’alcool, è tra le concause solo fisiche di queste morti; anzi, tra le concause secondarie. A monte ci sono quelle primarie. Quali? La esclusione dal nostro mondo dei senza casa. Il loro abbandono a se stessi, allontanando da noi la consapevolezza che una fragilità o un disagio psichico, spesso, li hanno resi tali: gente avvolta nei cartoni come immondizia, in cui quasi inciampare sotto i portici, da schivare accanto agli anfratti dove cercano riparo, la cui vista suscita fastidio e retrazione. Sono esseri umani vaganti: people on the road e non in senso di gioioso percorso in auto di strade, no: questa è gente da rua che per strada ci vive, che sale sui treni senza dover partire o che viene fatta scendere all’ultima fermata dall’autobus diretto al deposito e a cui un poeta rock mezzo secolo fa dedicò due versi dalla bellissima rima: <+CORSIVOA>let me tell of the losers who lie/ in the streets as the last bus goes by<+TONDOA> (lasciami raccontare dei perdenti che si stendono/ per strada, quando l’ultimo autobus se ne va».
Tutta questa consapevolezza è acquisita alla nostra mente e subito allontanata. Perché? Perché se la affrontassimo nella sua portata, verremmo risucchiati dalla sua gestione. Allora invochiamo le ragioni di sopravvivenza: lo spazio vitale, il nostro spazio vitale chiuso, la casa; mentre fuori resta lo spazio aperto mortale. E perché se ci confrontassimo con questa consapevolezza subito vedremmo che il ritrarcene somiglia a un reato, a una fattispecie penale, cioè all’abbandono di incapace. È così. Questa collettività che si dice civile, in quanto disciplinata dalla legge, convive con un reato e lo pratica: abbandona chi non sa provvedere a se stesso, sapendo di farlo.
Duemila anni fa da Qualcuno nato in una stalla – sempre perché non c’era altro posto dove farlo nascere al coperto – si levò una voce la cui suprema poesia fora il tempo, fora queste lattiginose nubi cariche di neve dell’anno del Signore 2018: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». Cristo, così cercato dalle folle per avere miracoli, così accolto nelle case dei discepoli, dei pubblicani e dei peccatori, nel suo transito terreno ha fatto anche esperienza della homelessness e a questa condizione ha voluto dedicare parole. È stato, in un certo senso, il primo homeless.
La Chiesa stretta intorno al Cristo è l’unica ad aprirsi. I politici non lo faranno mai, non si è sentito uno di loro scendere in campo sull’emergenza dell’annunciato gelo per chi è senza casa, sono troppo accalorati nella corsa elettorale. Quanti homeless votano? Figurarsi se in mezzo ai cartoni e alla roba stipata nel carrello o nel trolley che si trascinano per strada, hanno con sé la scheda elettorale, o pensano a procurarsela; magari non hanno più neanche un documento d’identità valido, sicché in questa settimana sono davvero gli ultimi della cui identità preoccuparsi. E loro, quanto poco la collettività li abbia fatti sentir parte sinora lo sanno bene e potrebbero testimoniarlo. Solo l’Ecclesia li chiama senza tornaconto. Meglio, l’azione ecclesiale, nel più puro senso etimologico del termine, che significa «chiamare a sé».
Indica il chinarsi dell’essere umano soccorrente, dell’alieno-samaritano, sul prostrato bisognoso di soccorso, che la sua gente non soccorre; per farsi – anche fisicamente – vicino a lui; prossimo a lui. Siamo negli archetipi del mutuum adiutorium cristiano. Siamo nella sequela, nella 'cerca' della pecora smarrita, nel non abbandono a se stesso di chi non verrà, del comunque bisognoso che non ha (non solo voce) neppure coscienza di dover chiedere aiuto. In queste parabole, in queste metafore sta oggi la sfida alla pratica evangelica.
E la neve non lo nasconde, lo rivela. Per i tremila senza casa di Roma si è mobilitato soprattutto un piccolo esercito di volontari, di strutture e di organizzazioni. La stessa cosa a Napoli e in altre grandi e piccole città. A Torino l’Arcivescovo, a Venezia il Patriarca hanno fatto spalancare le porte delle parrocchie. Iniziative simili ci sono in cento altre località e anche in realtà provate da eventi naturali come il terremoto. Sono strutture ecclesiastiche, sono organizzazioni laiche, sono singoli che si attivano spontaneamente. Non ci chiederemo se sono composte tutte da credenti. Sono composte da agenti della grazia. I quali credono – certamente credono – che si debba chiamare e cercare chi non far morire di freddo, se vive per strada.