Attorno alla tragica fine di Gloria Trevisan e Marco Gottardi, i fidanzati morti nel rogo di Londra, si è levato nelle nostre case come sul web – centinaia di migliaia le "condivisioni" della vicenda – una commozione profonda. Certo, per lo strazio della morte a quell’età di due ragazzi che si volevano bene; per la terribile dinamica dell’accaduto, per l’incubo di una morte in diretta, al telefono, con i genitori, in Italia. Per lo strazio delle ultime parole di Gloria, per quel suo ringraziare la madre e promettere il suo aiuto dal cielo. Per il tentativo di Marco, fino all’ultimo, di rassicurare i suoi. Per tutto questo certo, eppure da giorni dei due italiani di Londra non si smette fra noi di parlare. Come se in quei ragazzi, nella loro morte, trovasse eco e dolesse un pensiero collettivo, oltre la vicenda dei singoli.
Sono tanti ormai quelli che hanno figli che, per lavorare, vanno all’estero, o pensano di andarci; o non ci vanno e stentano a vivere di stage e tirocini infinitamente replicati, o addirittura restano a casa, quasi sentendosi dire: siete inutili.
Nella storia dei due italiani a Londra abbiamo rivissuto il destino di una parte della loro stessa generazione: essere sottoccupati, disoccupati, o emigranti. Come lo erano Gloria e Marco in quel grattacielo ristrutturato solo dall’esterno, per sembrare un posto da ricchi, mentre dentro, sui pianerottoli, si accumulavano tricicli di bambini, panni stesi, rifiuti; e negli appartamenti si affastellava un melting pot di etnie diverse, profughi siriani e giovani audaci e di belle speranze, come i due italiani.
Laurea coi massimi voti. Emigrati. Tasto dolente, giacché in molte nostre case è vivo ancora, per memoria diretta o ereditata, il ricordo di genitori e nonni e bisnonni partiti per molto lontano, con povere grosse valigie, su treni affollati o su navi che traversavano l’oceano. I nostri figli emigranti viaggiano con il trolley e su voli low cost da trenta euro, vanno e vengono in due ore. In confronto ai minatori e ai manovali di un tempo, sembra una emigrazione di lusso. Però è sempre andarsene dal proprio Paese e dai propri cari, a domandare ciò che è essenziale e qui non trovano: un lavoro. A domandarlo in un inglese dapprima incerto, nella malinconia che cade addosso la sera nelle città straniere: e allora si telefona a casa, o ci si mette davanti al computer, si accende Skype per ritrovare gli amici, i fratelli. Quei due poi, così in gamba, che ce l’avevano quasi fatta: una casa nel cielo di Londra, 1.800 sterline di stipendio e le loro facce felici, nelle foto su Facebook. E la sciagura che piomba in un istante, di notte, come uno sparviero.
Non riusciamo a consolarci del destino di quei ragazzi, come fossero due dei nostri figli che se ne vanno nel fiore degli anni. E lontani da casa. Forse è l’ombra di un sommerso senso di colpa? Non abbiamo saputo dare a tanti dei nostri figli ciò che noi abbiamo ricevuto. E neanche l’occasione per provare a meritarselo. Una generazione garantita nei diritti acquisiti, talvolta anche ipergarantita, ha messo al mondo per la prima volta nella nostra storia figli più poveri, che spesso non guadagnano abbastanza per avere una casa, una famiglia, dei figli. Diversi in tanto eppure profondamente simili ad altri giovani, ancora più poveri, ancora più forzati, che risalgono da sud e da oriente il mare verso un sogno che per loro ancora e sempre in Italia comincia. Ma da qui, pure, non pochi fanno la valigia e se ne vanno. Come Gloria e Marco, felici della loro vista sulla City, anche se il palazzo non aveva scale d’emergenza, e per 27 piani c’erano solo due ascensori malmessi.
Anche se quel grattacielo era una trappola. C’è un po’ di tutti noi italiani che abbiamo dei figli o dei nipoti ventenni, nel collettivo dolore per Marco e Gloria. Ci sono occhi e pensieri che dobbiamo imparare di nuovo in un tempo di parole impaurite e aspre e dure. Per Marco, che all’ultimo, coraggioso, rassicurava ancora i genitori. Per Gloria, che ringraziava di tutto – e prometteva di aiutare ancora, dal cielo.