«Quando arriva il pericolo il pastore non può fuggire». Questa frase di padre Francis Rother Stanley (che troviamo parafrasata nel titolo di una raccolta di sue lettere e in quello di una recente biografia) ben si presta a riassumere il senso della vita e della missione del sacerdote, ucciso in Guatemala nel 1981. Di padre Stanley ieri il Papa ha solennemente riconosciuto il martirio, spianando così la strada alla beatificazione di quello che diventerà a breve il primo martire statunitense.
Insieme con lui, papa Francesco ha additato alla Chiesa come testimone coraggioso fino al sangue anche l’arcivescovo lituano Teofilo Matulionis, vittima del regime comunista sovietico, deportato e ammazzato in Siberia nel 1962. Infine, ecco un gruppo di 21 martiri, uccisi negli anni roventi della guerra civile spagnola: Vincenzo Queralt Lloret, sacerdote della Congregazione della Missione e venti compagni: sei sacerdoti suoi confratelli, cinque preti diocesani, due religiose e sette laici.
Tre istantanee di martirio in tre diverse epoche storiche e altrettante differenti situazioni geografiche. Eppure un filo rosso che le lega c’è e possiamo chiamarlo, parafrasando Bonhoeffer, «fede a caro prezzo». In tutti i casi citati i protagonisti ben sapevano i rischi che stavano per correre. Non erano ingenui o sprovveduti, nemmeno teste calde in cerca di gloria effimera. No: pur consapevoli che restare fedeli al Vangelo in circostanze così buie avrebbe potuto costare molto caro, non si sono tirati indietro. Come scrive Papa Francesco in Evangelii Gaudium «il discepolo sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo».
Prendiamo il caso di padre Francis Rother Stanley, il più temporalmente vicino a noi. L’hanno ammazzato in uno dei momenti più duri della repressione voluta da Rios Montt, costata la vita a moltissimi fedeli, soprattutto laici (i vescovi del Guatemala presentarono a Giovanni Paolo II e alla commissione Nuovi martiri, in vista del Giubileo del 2000, una lista di 77 nomi, in larga parte catechisti). Ebbene: padre Stanley avrebbe potuto salvare la pelle, lasciando il Paese. Al contrario, è rimasto fino alla fine a fianco della popolazione a lui affidata. Scriveva padre Stanley in un’altra lettera: «Di recente mi è stato fatto un bel complimento quando un sedicente capo della Chiesa e della città ha protestato che "Padre Stan difende la gente". Voleva che fossi espulso per il mio peccato. Questo è uno dei motivi che ho per rimanere, nonostante i rischi».
Quando, nell’estate 2014, Francesco beatificò a Seul 124 martiri coreani disse che «i martiri ci ricordano che bisogna mettere Cristo al di sopra di tutto e non scendere a compromessi con la fede». Un simile monito, in questi ultimi anni, lo ha ripetuto in molteplici occasioni. Papa Bergoglio – il Pontefice «preso quasi alla fine del mondo», in un Paese molto cattolico come l’Argentina – è lo stesso che, fin dai primi mesi di pontificato, ha ricordato alla Chiesa che «non esiste un cristianesimo low cost». E di recente, riferendosi a padre Jacques Hamel, trucidato in Francia, è tornato a far memoria del fatto che «oggi nella Chiesa ci sono più martiri cristiani dei primi tempi».
Il martirio quindi – se la fede è affar serio e non "vernice" che sancisce una mera appartenenza sociologica – è da intendere come costitutivo dell’identità cristiana, sebbene – certo – non tutti siamo chiamati, come avviene per i martiri, all’offerta suprema ed eroica per Cristo. In ogni caso, mentre indica alla Chiesa e al mondo questi nuovi martiri del Novecento, papa Francesco non fa che richiamare tutti e ciascuno a quel passo radicale del Vangelo dove Cristo dice «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici».
Anche nel 2016 dopo Cristo, nell’era della globalizzazione e del virtuale, della tecnologia e del post-moderno, questa antica e sempre attuale verità viene riaffermata con forza dai martiri. Non come sterile formula o come slogan sentimentale, bensì come incrollabile certezza scritta col sangue.