Non si dice Messa in chiesa oggi in Sri Lanka. Le chiese sono tutte chiuse. Sbarrate le porte in questa domenica della Divina Misericordia, in un Paese tramortito da una Pasqua di sangue. Sono stati 253 i morti. Famiglie al completo, con il vestito della festa, sorridenti, come si usa a Pasqua, e soprattutto fra gente del popolo. A Messa prima, a insegnare ai figli che Gesù è risorto dalla morte; e poi a casa, a tavola, tutti insieme, fra i profumi dalla cucina e gli strilli dei bambini. Questo doveva essere il 21 aprile scorso, e non è stato. Il demone del nulla incarnato dal terrorismo del Daesh ha dato e si è dato trionfalmente la morte.
Secondo le autorità locali ci sono almeno 140 foreign fighters tornati, liberi, nel Paese. Per questo le chiese oggi (e a tempo indeterminato), come le moschee, sono chiuse: polizia ed esercito non sono in grado di proteggerle. Una misura inedita, forse la prima presa, almeno in così larga scala, in conseguenza della minaccia islamista. Navate vuote, nessun Vangelo che risuona. E nessuna Eucarestia. Né pane né vino sull’altare, né code di fedeli che s’incolonnano per ricevere l’Ostia: in quel gesto dell’aprire il palmo della mano o del protendere la bocca, gesto di poveri che si sanno tali, e mendicano. I cristiani a Colombo orfani oggi di quel pane che fa vivere. Di modo che qualcuno, in un milione e mezzo di fedeli, potrebbe pensare: qui sta vincendo la paura, e la morte.
Da noi invece, le chiese come sempre spalancate. In quella libertà di culto, in quella pace in cui da tanto viviamo, che ci sembra l’unico mondo possibile. Ci sediamo tranquilli nelle navate di basiliche millenarie; stiamo comodi, larghi, perché molti a Messa non vanno. Alziamo distrattamente lo sguardo su affreschi splendidi, su meravigliose pale d’altare. Tutta questa bellezza, gratuita e liberamente accessibile, ci pare normale: è la casa, in cui siamo nati. Ci siamo abituati. Forse troppo, per apprezzare il dono che abbiamo, nella culla del cristianesimo occidentale.
In una domenica come le altre per noi, in questo speciale tempo di Pasqua, pensiamo alle porte chiuse delle chiese in Sri Lanka. Portiamo il cuore su quegli altari spogli, dove tutto resta inerte; nel silenzio, da fuori, eco di auto che passano, e voci e grida di quartieri sgomenti. Potremmo, oggi, andare a Messa anche per gli sconosciuti cristiani dello Sri Lanka, chiusi in casa, sbalorditi per quell’appuntamento di sempre, che ora manca. Per quel gesto filiale dell’allungare la mano, di protendere la bocca a ricevere l’Ostia, oggi impossibile.
Tanto più lacerante una tale assenza, nelle case in cui la ferocia terrorista ha portato via qualcuno, il cui volto ora terribilmente manca. Padri, figli ( 45 bambini sono morti, nelle stragi di Pasqua) che assurdamente non ci sono oggi, a tavola: anche se a chi è rimasto pare di risentirne la voce, accanto. A chi domandare aiuto, di fronte all’implacabilità della morte, se non a Cristo? («Signore, da chi andremo?») A Colombo e nelle città e nei paesi cingalesi oggi possono pregare, ma non ricevere quel pane di vita. Oggi, quando ancora è smossa la terra sulle grandi fosse scavate di fretta nei cimiteri ad accogliere madri, padri, bambini martirizzati la mattina di Pasqua. Chi darà conforto alla giovane donna che in una foto sul web da Colombo piange, prona sulla terra nera, disperata come chi ha perduto un figlio? Non ci sarà per lei, oggi, il Pane.
Noi, a Messa tranquilli, magari distratti, possiamo oggi nella fede condividere Cristo con quella donna e col suo popolo. Nella domenica della Divina Misericordia, quella in cui secondo santa Faustina Kowalska Cristo spalanca le viscere della sua misericordia sul mondo: su noi cristiani d’Occidente, avvezzi alla pace nella libertà tanto da non farci caso, e su quelli dei Paesi in cui si prega di nascosto e si entra in una chiesa con ansia, dentro una minaccia incombente. Clandestini, quasi. Come nell’ex impero sovietico, come nei gulag in cui i preti celebravano in cella, consacrando briciole di pane. Come nella Francia percossa dalla Rivoluzione in cui il bambino Jean-Marie Baptiste Vianney andava a messa di notte, con i suoi, in cascine segrete di cui appena ci si sussurrava il nome: quel bambino che diventò il curato d’Ars, e una folla lo attendeva ogni mattina per confessarsi. e averne una parola.
Perché il pane di Dio negato, il sangue dei cristiani versato non finiscono nel nulla, ma – Sanguis martyrum semen christianorum – rinascono, e germogliano. Forse, nel suo strazio, quella donna cingalese riversa sulla terra di una tomba non lo sa più. È per lei e per il suo popolo che noi dobbiamo domandare, la mano tesa e vuota, Cristo.