La dichiarazione – «ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico» – fatta da Gianni Pezzoli, il medico che aveva in cura il cardinal Martini, ha indotto non pochi a una lettura strumentale, fuorviante e pretestuosa, fino a ravvisare in essa una legittimazione dell’eutanasia ed equipararla alla morte di Eluana e di Welby. Sorprende in particolare – e infatti su queste colonne la questione è già stata autorevolmente e acutamente commentata – la lettura in termini di contrapposizione alla dottrina della Chiesa. Il che non è assolutamente vero né in linea di principio, né in linea di fatto.Non in linea di principio, perché il rifiuto dell’accanimento terapeutico è legittimato dal magistero bioetico della Chiesa, come insegna il Catechismo: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire». La Chiesa è certamente per la vita, ma non per la vita a ogni costo. C’è un "costo" clinico umanamente e teologicamente inaccettabile. Umanamente perché gravoso, non atto a curare, non dignitoso e rispettoso della persona. Teologicamente perché volto a contrastare il disegno di Dio su ognuno, che abbraccia anche il morire, da accogliere e vivere in naturale libertà.La scelta del cardinal Martini è conforme alla dottrina della Chiesa anche in linea di fatto. Essa distingue i mezzi terapeutici in proporzionati e sproporzionati rispetto ai loro effetti. I primi sono doverosi perché, anche se non guariscono, curano. Essi sono un valido sostegno al vivere della persona malata. Rinunciare a essi è atto soppressivo della vita: è eutanasia omissiva. Ai mezzi straordinari invece si può e, per non cadere nell’accanimento terapeutico, si deve rinunciare. Essi infatti danno luogo a un prolungamento forzoso e penoso della vita. In situazione clinica come quella dell’arcivescovo emerito di Milano – ha spiegato il medico – «si possono usare vari dispositivi come la peg» (gastrostomia endoscopica percutanea). Ma nella fase degenerativa estrema raggiunta dalla malattia, «la peg – ha precisato il medico – sarebbe un accanimento terapeutico e l’accanimento terapeutico non va mai applicato in nessuna terapia medica, quindi anche in questo caso».Dunque il cardinal Martini ha fatto una scelta clinicamente ed eticamente legittima: ha rinunciato alla peg in una fase della malattia nella quale essa non costituiva più un atto curativo (proporzionato) ma un intervento eccessivo e inutile (sproporzionato), un’ostinazione terapeutica medicalmente e moralmente inammissibile. Non c’è stato dunque nessun atto soppressivo della vita, né per omissione di cure proporzionate e dovute né per azione volta a interromperla. Non sono stati messi in atto protocolli di "dolce morte". Si è semplicemente consentito alla vita di fare il suo decorso, fino al suo atto ultimo, il morire. L’ha detto espressamente il medico: «La malattia è evoluta nel modo più naturale possibile».Perché allora speculare sulla morte di un grande testimone del Vangelo della Vita, tirarlo dalla propria parte per usarlo a testimonial della propaganda pro-eutanasia? Perché rifiutarsi di tener conto della ragionevole distinzione del magistero bioetico della Chiesa tra eutanasia (la morte a ogni costo) e l’accanimento terapeutico (la vita a ogni costo): entrambi (non solo la prima) delegittimati dalla dottrina cattolica? Perché equiparare il rifiuto dell’accanimento terapeutico a una scelta eutanasica? Perché far passare la delegittimazione dell’eutanasia come la privazione di un diritto? La morale cattolica, come ogni etica centrata sul valore indisponibile e inviolabile della persona, non può ammettere un diritto a morire. Ma un diritto a morire con dignità umana e cristiana sì. È quanto fa la Chiesa con la delegittimazione dell’eutanasia da una parte e dell’accanimento terapeutico dall’altra. Di questa dignità umana e cristiana del morire sono stati testimoni il cardinal Martini e il Beato Giovanni Paolo II, anche la sua morte assoggettata a una strumentalizzazione pro-eutanasica. Il modo come hanno affrontato la malattia e la loro rinuncia all’accanimento terapeutico sono un brano di quel Vangelo della vita che hanno insegnato e vissuto.