Le analisi condotte sulla base di dati ministeriali e di indagine sulla composizione sociale del voto al partito che ha raccolto la maggioranza dei consensi, il Movimento 5 Stelle, riflettono una trasversalità e un interclassismo che inducono a rivedere molti dei luoghi comuni che hanno caratterizzato la campagna elettorale e non solo.
Chi ha votato 5 Stelle proviene in larga parte dal bacino elettorale che precedentemente si era espresso in tal senso, con l’aggiunta però di voti provenienti da quasi tutte le altre formazioni politiche. Da un punto di vista anagrafico i nuovi voti 5 Stelle sono numerosi tra i giovani che hanno votato per la prima volta, ma le percentuali sono alte anche nei giovani adulti, negli adulti ed addirittura negli anziani. Molto si è già detto e scritto anche sulla provenienza territoriale del voto ai 5 Stelle: il maggiore incremento si è verificato nelle regioni meridionali, in alcuni casi con crescite di più del 30%.
Ma anche alcune regioni del Centro hanno registrato larghe adesioni a questa forza politica. I dati raccolti, poi, sfatano il luogo comune di un soggetto che attinge nelle aree di livello culturale inferiore, in quanto anche tra i ceti più colti l’adesione è stata alta, di pochissimo inferiore a quella dei ceti meno acculturati. E si sfata anche l’altro mito che vorrebbe il Movimento radicato nelle aree di disoccupazione: anche qui le differenze tra occupati e no, e tra professionalità di alto e basso livello, ci sono e sono a favore dei secondi, ma non sono così marcate come ci si sarebbe aspettati.
Con la eccezione di una massiccia adesione da parte dei dipendenti della pubblica amministrazione (41,6% dei quali secondo Ipsos ha votato 5 Stelle). Infine anche dal punto di vista religioso la adesione da parte di chi si dichiara cattolico praticante non si discosta in termini percentuali di molto dalla media dei votanti. I dati in sostanza confermano il consolidarsi di un fronte trasversale da vari punti di vista, e decisamente interclassista, con una certa prevalenza di votanti giovani, del Meridione e dipendenti pubblici (e sappiamo che le tre categorie spesso coincidono), ma con una caratterizzazione ben più ampia. I dati indicano, quindi, la presenza di una estesa domanda di cambiamento a tutti i livelli, che non può essere considerata marginale, non solo dal punto di vista numerico, ma neanche da quello sociale.
Ciò rimanda alle varie diagnosi sul disagio diffuso dei nostri tempi che le scienze sociali e gli osservatori attenti, specie di questo giornale, hanno più volte espresso e comunicato, venendo a volte considerati portatori di un punto di vista di stampo sociologico troppo ristretto, soprattutto da parte di una certa borghesia intellettuale al riparo da tante forme di malessere (come dimostra la concentrazione di voti differenti nei quartieri più agiati delle metropoli).
È insomma più diffuso di quanto i più pensavano il malessere generato dal peso delle disuguaglianze (non solo economiche, ma anche e soprattutto di accesso alle varie risorse culturali e sociali), dal senso di insicurezza rispetto al futuro (precluso sia ai giovani che non trovano lavoro o trovano solo lavoro precario, sia agli adulti che lo perdono), dalla solitudine fisica e spirituale di tanti cittadini e famiglie, dall’estraniamento nei luoghi di vita e soprattutto nelle grandi realtà urbane del Sud, dal disagio psichico, dal carico assistenziale delle famiglie con malati cronici e disabili, dalle difficoltà delle giovani coppie, dalle carenze della seconda integrazione degli stranieri che si sono radicati e lavorano sul nostro territorio. E da qui occorre ripartire con politiche di integrazione, di supporto proattivo alle fasce deboli, di rafforzamento della offerta culturale a 360 gradi, con un impegno maggiore, con la consapevolezza delle ferite e delle debolezze del nostro corpo sociale e con uno sguardo davvero rivolto al futuro.