Si è parlato molto poco sui mass media italiani di un fatto accaduto domenica scorsa in Canada, nella città di London (Ontario). Un giovane di neppure vent’anni ha investito volontariamente con la sua auto una famiglia di cinque persone, per la sola ragione che si trattava di musulmani.
Quattro sono rimaste uccise, un ragazzino di nove anni è stato gravemente ferito. Erano arrivati dal Pakistan 14 anni fa, e vengono descritti come partecipanti attivi nella locale moschea, ma anche ben integrati nel contesto sociale. L’assalitore non aveva nessun rapporto con le vittime, non c’erano precedenti di litigi o tensioni. La motivazione dell’attacco è stata il semplice, ma fanatico, odio anti-musulmano, spinto fino alle estreme conseguenze. Non si tratta quindi di un mero fatto di cronaca, benché tragico. Si tratta di quello che, a parti invertite, sarebbe stato certamente definito come un attentato terroristico.
La triste vicenda suscita tre riflessioni.
La prima riguarda il Canada, il Paese che ha per primo e più convintamente adottato un modello di integrazione di diverse culture come politica pubblica, e come un tratto tipico della propria identità nazionale post-britannica. Per decenni il modello ha funzionato pacificamente, e il Canada nel mondo ha beneficiato della reputazione di Paese-guida per l’integrazione riuscita di successivi flussi d’immigrati, anche perché in buona parte selezionati per livelli d’istruzione, competenze professionali, legami familiari con altri immigrati già insediati. È presto per decretare il fallimento del modello, ma qualcosa dev’essersi incrinato, e non perché gli immigrati abbiano manifestato segni di rifiuto dell’integrazione, ma perché tra i cittadini nativi la mala pianta dell’intolleranza sta attecchendo. Il bersaglio più colpito sono proprio i musulmani: nel 2019, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, 181 episodi di violenza nei loro confronti, più di uno ogni due giorni ( The Submarine, dati Statistics Canada).
La seconda riflessione riguarda la risonanza mediatica internazionale: bassissima. Non è difficile immaginare quale sarebbe invece stata se un musulmano in auto avesse investito e ucciso quattro pacifici cittadini non musulmani. Mentre in questi giorni si rievoca lo 'scontro di civiltà' nel caso della povera Saman, che ha trovato giustamente ampio spazio sui media nazionali, stentiamo a riconoscere quanto odio anti-islamico scorra nelle società occidentali. Il trattamento mediatico, politico e giudiziario della violenza contro i musulmani è sistematicamente riduttivo, rispetto a quello riservato ai fatti violenti in cui in un modo o nell’altro sono implicate come aggressori persone riconducibili a un’identità religiosa e culturale musulmana.
Questo doppiopesismo conduce alla terza riflessione. Chiamiamo terrorismo la violenza cieca che suscita un terrore diffuso, che spaventa la società nel suo insieme. Ma quando esplodono attacchi che hanno come bersaglio i musulmani, stentiamo a riconoscerli come attentati terroristici perché non prendono di mira noi, ma una minoranza identificabile, e per di più malvista. Quando avvengono, dalla Nuova Zelanda alla Germania, ora al Canada, ci si accorge troppo tardi che le avvisaglie, i messaggi, gli ambienti propulsori erano stati sottostimati. Sarebbe sbagliato rinfacciarsi le vittime, si alimenterebbe nuovamente il fantasma dello 'scontro di civiltà'. Abbiamo bisogno invece di una battaglia convinta e condivisa contro l’odio con pretesti religiosi e culturali, ovunque si celi, in nome di una civile concittadinanza e di una rinnovata fraternità tra persone e comunità di fede diversa.