Il mattino presto, quando ti siedi in poltrona e leggi i giornali, è il momento più dolce della giornata, perché ti pare che di notte, mentre tu dormivi, il mondo abbia lavorato per te, e abbia fatto tutte quelle cose che ora leggi, comodamente seduto. Ma in questa dolcezza c’è un momento più dolce ancora, ed è quando, finito di leggere un giornale, torni indietro a rileggere quel che più ti ha colpito, ti ha interessato, ti ha preso.
Quello è l’articolo, la cronaca, il commento, che ricorderai per sempre, perché in quell’articolo c’è una rivelazione, qualcosa che non sapevi e aspettavi, che finalmente è venuto e starà sempre con te. Dall’anno scorso mi càpita sempre più spesso che questo vertice del giornale, questo punto alto dell’informazione, stia nella narrazione di un figlio che va a trovare il padre malato di Covid. Non può stargli a contatto, non può abbracciarlo, non può fargli guancia a guancia, può a malapena guardarlo attraverso un vetro e dirgli due-tre parole, ascoltando le due-tre parole che arrivano in risposta, confuse nel fruscìo del flusso d’ossigeno che scorre in gola al malato.
Anche ieri l’articolo più memorabile che ho letto era su questo tema, figlio che incontra il padre ricoverato e isolato, dialogo in cui nessuno dei due capisce niente, e in cui ognuno dei due dice le cose più importanti che abbia mai detto. Mi pare che con quel dialogo le due vite acquistano un senso. Si completano. Prima erano monche. I due diventano padre e figlio. Prima erano conoscenti. Prima parlavano. Adesso comunicano.
Dico questo per fare bella figura, per dire agli altri voi parlate, io comunico? No, mi includo nel problema. Con mio padre parlavo poco, non ci capivamo. Abbiamo lasciato montagne di cose non-dette, e ora non possiamo più dirle. Io scrivo libri, ma che senso ha scrivere a tutti gli uomini che non conosci se non sei in grado di parlare a tuo padre e tua madre che ti stanno di fronte? Il 2020, appena finito, e il 2021, appena cominciato, ci rammentano ogni giorno, 24 ore su 24, che intorno a noi c’è la morte, ogni sera i tg ce ne danno la conta, oggi i decessi sono 500, oggi 400, sempre troppi, e questa continuità del contatto con la morte agisce sul nostro cervello e sul nostro comportamento, cambia le nostre scelte.
Ricevo in questo momento l’email di una ragazza che fa la libraia- editrice e mi scrive: «A Natale imprevisto aumento di clienti in libreria, speriamo che duri». La gente torna a leggere e comprare libri? È un gran bel segno. Scrivere libri e leggere libri indica un bisogno di durata, una fuga dalla provvisorietà. Sempre quando abbiamo un problema di morte cerchiamo la salvezza nei libri. Avevo un amico, un grande amico, membro dell’Accademia degli Immortali, che voleva venirmi a trovare, viveva a Parigi ma aveva paura dell’aereo e non voleva fare Parigi-Venezia, anche se è solo un’oretta. D’improvviso si decide e viene. Lo vado a prendere all’aeroporto e gli chiedo: «Cosa ti ha dato il coraggio? ».
Risponde: «Ho consegnato il manoscritto all’editore ». Cioè: anche se l’aereo cade, il mio libro ormai esce, e io vivo nel mio libro. Non muoio più. L’uomo ha questo bisogno di vita, di vita oltre la morte, di immortalità. Il figlio che va a trovare il padre morente di Covid è per dargli un appuntamento, l’addio è un a-Dio, un arrivederci. Ogni giorno cerco sui giornali questi appuntamenti per rimediare agli appuntamenti che non ho dato.