«Una persona che pensa di fare i muri non è cristiano. Questo non è il Vangelo». Papa Francesco lo disse nel 2016, prima che Donald Trump fosse eletto presidente degli Stati Uniti d’America. E venne criticato per questo da chi, condividendo l’«agenda» di Trump, sentenziò: «Un Papa non fa politica». Ma non era politica: era Vangelo. Eletto presidente, Trump non si è limitato a costruire muri: ha anche strappato figli ai genitori immigrati dal Messico (ed è oggi molto difficile ricongiungerli); ha lasciato che tanti malati di Covid fossero abbandonati a se stessi; ha ostentato dichiarazioni e scelte pro-life, ma sempre inneggiando alla pena capitale e riattivandola a livello federale (e vuole far morire così anche una donna con problemi psichici); ha denigrato gli avversari, ha mentito, ha inquinato i social network sino a esserne sospeso per incitamento all’odio... Da ultimo ha cercato di sovvertire il risultato delle elezioni in cui è stato sconfitto, ha incitato all’insurrezione, ha spinto ad aggredire il Parlamento degli Stati Uniti. Ha dato un colpo tremendo alla democrazia, in America e nel mondo. Ora è chiaro a (quasi) tutti, anche alla maggioranza dei parlamentari repubblicani, che bisognava fermarlo prima.
Papa Francesco, insomma, aveva ragione. Il metro del Vangelo ha ragione. Riconoscerlo, però, pone interrogativi scomodi. Perché non pochi hanno criticato aspramente il Papa e troppi altri hanno taciuto? Lo hanno fatto perché non hanno riconosciuto le motivazioni evangeliche e umane che lo hanno costantemente ispirato. E hanno pensato e detto che prendere posizione nei confronti di un uomo politico potente non è compito dei cristiani. Già, farlo non è mai facile: significa abbandonare una comoda equidistanza, rischiare di essere confusi con compagni di strada con cui non si vorrebbe avere a che fare, attirarsi critiche o guai... Ma ci sono momenti e situazioni in cui i cristiani, come tutte le donne e gli uomini onesti, devono prendere posizione anche su questioni politiche. Non per motivi politici, ma proprio perché cristiani. È accaduto, ad esempio, nell’Europa fra le due grandi guerre novecentesche. Negli ultimi anni, Francesco ha più volte ricordato quelle vicende, richiamando il nazionalismo esasperato, la sindrome 1933, i discorsi di Hitler...
Prendere posizione non significa demonizzare. Molti oggi spiegano Trump in termini di personalità disturbata, «narcisismo maligno» (Fromm), mancanza di empatia, situazione psicopatologica ecc. Il punto è un altro: è l’enorme potere nelle sue mani, anche quando non sarà più presidente. Ovviamente, il trumpismo non si riduce a Trump, gli oltre 74 milioni di voti per lui non possono essere né ignorati né criminalizzati. Ma senza Trump, il trumpismo non esisterebbe. È stato lui a coagulare fenomeni e tendenze diversi, che altrimenti sarebbero rimasti distinti. È lui che ha dato forma a un amalgama di paure, smarrimenti, disagi – che hanno radici reali e che devono essere ascoltati – avvelenandolo con estremismo, odio, violenza. Isolare Trump significa restituire ogni cosa alla sua autenticità. È una condizione necessaria per poter dialogare davvero con i tanti verso cui è giusto avere grande attenzione.
Ciò che è accaduto a Washington mostra il grave pericolo che corre oggi la democrazia. C’è chi risponde contrapponendo tout court al populismo lo Stato di diritto. Ma rischia di essere una risposta debole: la crisi c’è perché si è consumato un divorzio tra il popolo – o una sua larga parte – e la democrazia, e lo Stato di diritto è forte solo se poggia su un largo consenso. Il populismo spinge il popolo contro la democrazia. Salvarla significa riconnetterla con il popolo. In tale contesto, il ruolo dei cristiani è tutt’altro che irrilevante: la spinta della fraternità ne fa amici veri del popolo, mentre il «populismo irresponsabile», come ha detto papa Francesco lo strumentalizza.
I cristiani perciò, come e più di altri, possono e devono contribuire a salvare la democrazia. Soprattutto – come ha annotato su queste pagine Giorgio Ferrari – dopo il 6 gennaio dell’emblematica caduta, al cospetto del mondo intero, di quel «faro» della democrazia rappresentato dagli Stati Uniti. Lo devono fare non perché stanno dalla parte dell’Occidente, ma per aiutare tutti i popoli, soprattutto quelli non occidentali.