Il grande caos sul ritorno a scuola pone in essere questioni tecniche e organizzative, ma dentro questo immane lavorìo resta nascosta una grande domanda: questo periodo incredibilmente lungo di assenza “della scuola” come luogo fisico e frequentabile non solo dell’apprendimento ma anche della crescita delle persone, cosa ha detto sulla natura e lo scopo, il cuore e il senso dell’educazione?
La scuola non è solo mascherine e banchi monoposto ma è anche qualcosa di cui nessuno parla, forse perché inconsciamente si ammette che non esiste più un senso condiviso da tutti su cosa sia educare: e quindi, se è solo una trasmissione di conoscenze, allora è logico che si parli solo di beghe organizzative. Pare che nessuno o comunque pochi – a parte “Avvenire”, che al tema sta dedicando una serie di approfondimenti e riflessioni, sino all’editoriale di prima pagina firmato domenica scorsa da Marina Corradi – senta il problema educativo di fondo: quello di dare una unitarietà, una continuità, all’educazione.
Ma il Covid fa esplodere il problema perché rimane da esplicitare la domanda: quando tu insegnante sei in classe, che cosa fai, cosa dici, perché ci vai? Il vero detonatore di questo problema non è una rarefatta alchimia cerebrale, bensì la più primitiva e più viscerale delle emozioni: la paura. E sto parlando soprattutto della paura che c’è da parte di non pochi docenti. Non si ha il coraggio di dirlo apertamente ma nelle chat, nei sussurri, ecco la domanda vera: ma per quale motivo io mi devo ammalare? Perché io devo rischiare la vita? Per dire quando è nato Manzoni? Forse questa paura è presente anche negli alunni, ma nei docenti, che hanno già cominciato riunioni e consigli di classe, questo problema emerge violento e rimbalza sull’altro, su quello del senso della scuola.
Perché se l’obiettivo fosse quello di trasmettere “un essere” e non solo “un conoscere” la paura sarebbe certamente un ostacolo più facilmente superabile. Come facciamo con tutte le domande a risposta difficile, negli articoli che vedo ci si pone il problema di “cosa arriva” con le piattaforme digitali usate per l’insegnamento a distanza, ma non ci si pone il problema che la persona non arrivi. Nelle tradizioni antiche delle scuole la trasfusione di esperienza sapiente si compiva alle condizioni proprie dell’impegno della relazione: alle condizioni della fiducia e dell’amore, non al modo in cui si trasmettono informazioni oggettive e asettiche. Con il virtuale, arrivano delle conoscenze ma nessuna trasmissione di esperienza.
E oggi questo problema non è neppure all’ordine del giorno. Non se ne parla. Non c’è, perché non c’era e non c’è mai stato. Cosa sia, che dimensione abbia quell’esperienza di vita che ci è consegnata e alla quale pure ci consegnamo, è la domanda che principalmente viene elusa. Nessuno ne parla ora perché non se n’è mai parlato: anzi il poter parlare finalmente di “qualcosa di concreto” come “mascherina sì, mascherina no” “banco monoposto sì, banco monoposto no”, toglie dall’imbarazzo.
Salvo far salire la paura a stringere la gola dell’insegnante e a spingerlo, magari, a trovare l’escamotage per stare a casa. Il Covid ha messo in evidenza non solo alcune criticità ma anche alcune positività che, se sfruttate, avrebbero potuto imprimere un nuovo corso alla scuola. Alludo alla scoperta che non sempre è così necessaria la presenza per trasmettere una conoscenza, il de visu non è così necessario per l’informazione, tanto è vero che adesso si parla di didattica integrata più che di didattica a distanza.
Così però, emerge ancora di più la domanda: se posso veicolare la conoscenza attraverso una lezione su YouTube, quando sono in classe cosa ci faccio, cosa dico, qual è la novità del mio stare lì? C’è un saper fare, un saper essere che posso dare solo “in presenza”, e lì casca l’asino. E tutto ciò è lasciato alla libera esigenza percepita dall’insegnante. Non esiste nessun piano scolastico che enunci tra gli obiettivi prioritari della classe il “crescere nell’essere”. Peccato dunque perché stiamo perdendo l’occasione di colmare una lacuna che il Covid ci aveva mostrato. Oltre alla trasmissione del sapere c’è l’esigenza di una trasmissione dell’essere: invece no, ci fermiamo alle mascherine o al banco monoposto.