A una prima lettura il piano Ue per fermare i flussi presentato ieri pare positivo. E un buon primo passo, lo ha definito in sostanza il ministro degli Esteri Gentiloni. Atto dovuto, visto che gli autori Timmermans e Mogherini rivelano che è ispirato al Migration Compact italiano. Ma in quale direzione si proceda non è ancora chiaro.
Partiamo dalle risorse. Con alcune ingegnerie finanziarie la Commissione può affermare che sul tavolo ci sono otto miliardi per Paesi mediorientali come Giordania e Libano, che ospitano il maggior numero di profughi in transito dalla Siria e per quelli africani come Etiopia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, da cui proviene la maggioranza dei migranti economici. Sembrano tanti soldi, ma la cifra totale è spalmata su cinque anni e sette Stati, e questo diminuisce enormemente il suo impatto. E se per Libano e Giordania l’investimento è certamente positivo, non viene spiegato come i fondi garantiranno ai profughi il diritto di restare vicini a casa per poter rimpatriare alla fine della guerra che li ha scacciati.
Quanto ai numeri, sappiamo tutti che non è un momento facile per reperire fondi. Ma non si può ignorare che circa 2,4 miliardi sarebbero quelli già promessi dalla Ue in occasione della conferenza di Londra per Libano, Giordania e Siria. E che è compreso nel totale anche il già annunciato miliardo di prestiti a Tunisia e Giordania (un quinto del quale, 200 milioni, è ancora allo studio). Da spiegare, infine, come si avvierà il meccanismo chiave del piano, ovvero il "volano" che – sulla falsariga dell’euro-piano Juncker – dovrebbe moltiplicare le risorse disponibili portandole da 8 a 62 miliardi, attirando investimenti degli Stati membri nei sette Paesi con cui verranno stipulati accordi di partenariato.
Passiamo a numeri purtroppo veri. Agli almeno 10mila morti in mare nel Mediterraneo dal 2014 a oggi (dati Onu). Il piano è nato per fermarli, ma quante possibilità ha oggi di arrestare in un quadriennio un esodo che pare inarrestabile dalla Siria e in aumento dal Sahel e dal Maghreb e su cui lucrano potenti organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani? Obiettivamente manca qualcosa. Si parla di sviluppo, ma non di come costruire nei Paesi di origine la pace, la sicurezza, un decente livello di libertà civili e democratiche che necessariamente lo accompagnano.
Il Compact europeo ha certo il merito di non coinvolgere più partner imbarazzanti come Eritrea, Sudan e Gambia, retti da regimi che negano i diritti umani e alimentano i flussi. Ma è comunque opinabile il metodo di erogare fondi a governi non sempre credibili, a élite corrotte che in alcuni casi hanno creato emergenze da cui i popoli fuggono, chiedendo proprio a costoro di tappare a ogni costo le falle.
C’è infine un rischio. Nel documento si parla molto di «ritorni» e di «accordi di riammissione» utilizzati nel caso di rimpatri forzati, non sempre legali. Il dubbio è che solo chi collaborerà a questi potrà beneficiare della cooperazione allo sviluppo. Vengono dimenticati invece i «rimpatri volontari», pista che andrebbe incentivata.
Si parla anche di «reinsediamenti» come strumento di ingresso legale, ma non dimentichiamo che finora hanno prodotto solo 6mila ingressi sui 25mila programmati. Al riguardo nessuno a Bruxelles, che pure è contro i "muri" al Brennero e sulla rotta balcanica, ha poi messo nero su bianco la possibilità di far finalmente partire i «corridoi umanitari», serio antidoto al traffico di esseri umani. Eppure, a oggi, quelli attuati con il governo italiano da Sant’Egidio e dagli evangelici, in collaborazione con diverse diocesi, paiono l’unica risposta praticabile per prevenire le stragi del mare e i drammi sulle varie rotte che conducono in Europa.