Russia, Turchia, Iran, Israele: la “teoria del domino” per capire cosa succede
sabato 30 novembre 2024

l raid jihadista su Aleppo, l’incursione dei bombardieri russi sulla città, la fiammata improvvisa che dalla Turchia si propaga alla Siria non sono fatti casuali, bensì perfettamente iscrivibili in quel “principio del domino” di cui ora parleremo. E soprattutto di quel nuovo “teatro” che è diventato il Medio Oriente. Un tempo il “teatro” per antonomasia era l’Europa. Era lì che America e Unione Sovietica avevano stabilito di affrontarsi in caso di duello nucleare. Il “teatro” eravamo noi, a ovest del Patto di Varsavia la Nato schierava i missili Pershing e Cruise, mentre Mosca allineava i suoi SS-20 alle spalle della strabordante armata di carri armati T-72 pronti a invadere l’Europa. La guerra per fortuna non ci fu. L’equilibrio nucleare l’aveva tenuta lontana. Oggi però il “teatro” non è più soltanto quello europeo. Ce ne sono svariati, da quello indopacifico a quello del Mar Cinese Meridionale a ridosso di Taiwan, da quello russo-ucraino a quello che più di tutti ha preso in questi ultimi mesi la palma della zona più calda del Pianeta, quello mediorientale.

E qui la mai dimenticata “teoria del domino” (dottrina geopolitica statunitense elaborata durante la presidenza Eisenhower nel pieno della Guerra fredda) è tornata ad affacciarsi nel complesso scacchiere che coinvolge Iran, Siria, Iraq, Libano e – ovviamente – Israele, con riflessi per ora marginali sulle nazioni arabe non ostili a Tel Aviv, come Egitto, Giordania, Arabia Saudita. A dare una mossa al quadro già fiammeggiante dopo la lunga battaglia di terra e d’aria fra l’Idf e Hezbollah, si è mossa ora la Turchia, gigante politico e militare solo apparentemente in letargo, che resuscita partendo dal ridotto di Idlib il vassallo jihadista Hayat Tahrir al-Sham in sonno dal 2020 insieme alle varie milizie sunnite che obbediscono a comando al rais, riaccendendo lo scontro con il regime di Bashar al-Assad. Una proxy war a tutti gli effetti, com’è oramai costume di quasi tutte le potenze, che Ankara vende come una misura preventiva battezzando l’operazione “Scudo contro l’aggressione”. Dire che Erdogan sia improvvisamente sceso in campo come alleato di Israele dopo aver ripetutamente proclamato che Netanyahu va processato come criminale di guerra, sarebbe una forzatura. Il leader turco guarda esclusivamente ai propri interessi, e il blitz delle formazioni qaediste è soprattutto una manovra di contenimento delle ambizioni del Kurdistan, eterna preoccupazione del rais, che allo scopo vorrebbe creare un’area-cuscinetto per ridurre gli effetti dell’irredentismo curdo. Di fatto però da settimane Israele sta bombardando Damasco e dintorni con regolarità: «In Siria – dice Netanyahu– stiamo impedendo sistematicamente i tentativi di Iran, Hezbollah e dell’esercito regolare di trasferire armamenti in Libano. Assad deve capire che sta giocando con il fuoco».

Proviamo dunque a esaminare quanto è accaduto nelle ultime ore da una prospettiva geopolitica più vasta. Il regime di Assad, ancorché sostenuto dalla Russia, è una costola dell’espansionismo iraniano, così come lo è stato per lungo tempo Hezbollah. Indebolire Damasco significa interrompere in un punto chiave la famigerata Mezzaluna sciita, quel corridoio che nell’epoca del suo massimo fulgore si estendeva da Teheran al Mar Mediterraneo passando per Baghdad, Deir ez.Zor, Palmira, Damasco, Latakia garantendo all’Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente. Lungo questa falce che penetrava nel cuore del mondo sunnita si dislocavano ben tre eserciti a disposizione delle ambizioni iraniane: 100mila miliziani in Iraq, 10mila hezbollah e 50mila fra iracheni e afghani in Siria e altre migliaia con Hamas a Gaza, cui si aggiungevano gli Houthi dello Yemen.

Il disegno di Israele è così evidente da non abbisognare di ulteriori spiegazioni: approfittare del caos per ridisegnare («Changing the strategic reality in the Middle East», per usare le parole di Netanyahu all’assemblea generale dell’Onu) la mappa geopolitica della regione. Ma se Teheran è in affanno, non altrettanto possiamo dire di Mosca. E saranno le prossime mosse di Vladimir Putin in questo scorcio di guerra mondiale a pezzetti (il copyright dell’espressione è del Papa) a definire lo scenario che verrà.

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