Meloni tra i suoi due vicepremier, Antonio Tajani e Matteo Salvini - Imagoeconomica
Una settimana di cortocircuiti e paradossi ci restituisce due coalizioni costrette a convivere, seppur più sfilacciate. Abbiamo visto da un lato i due partiti “secondi” del centrodestra – FI e Lega - litigare furiosamente per un beneficio ai cittadini da 20 euro, non certo un mega-taglio, nei giorni del maggior successo diplomatico di Giorgia Meloni, che ha portato a casa un ruolo di primo piano per l’Italia quando tanti pronosticavano invece un governo Meloni isolato in Europa (anche se il vero successo dipenderà dalle politiche che imposterà ora Bruxelles: saranno diverse o no?). Ma abbiamo assistito anche a una coalizione divisa sulla nuova Commissione, con la Lega che vota contro e ricrea l’asse giallo-verde con M5s. Dall’altro lato i pentastellati di nuovo separati sulla politica estera dal Pd, che invece ha votato sì (almeno la maggior parte) al Von der Leyen II, per poi sentire in modo incomprensibile l’indomani la segretaria Elly Schlein dire: «Non sentiamo nostra questa Commissione, ha virato a destra». Per non dire dell’altra votazione Ue, ancor più frastagliata, che ha diviso trasversalmente i due poli sull’Ucraina, a conferma che sulla fondamentale politica internazionale (che attende l’arrivo del “ciclone” Trump-bis) ognuno va per sé. Per ritrovarsi però tutti uniti, cancellando le parole d’ordine – perfettamente uguali, a parti rovesciate – sull’avversario «antidemocratico» e «pericolo per il Paese», quando si tratta di distribuire più soldi ai partiti con un escamotage stoppato dal presidente Mattarella.
Un guazzabuglio che renderebbe necessaria una mappa per far orientare i cittadini. Sono anche questi comportamenti, il “teatrino della politica”, a nutrire quella stanchezza e disillusione che alimentano l’astensione, fenomeno deprecato dai partiti a urne chiuse, ma dopo subito rimosso. Il tutto mentre Cgil e Uil, una parte dei sindacati, divisi anch’essi, riempiono (a metà) le piazze d’Italia scandendo slogan di poco senso sul Paese da «rivoltare come un guanto», anziché concentrarsi sul nodo di come affrontare al meglio una questione salariale che esiste, e da anni, anche con altri esecutivi. È una serie tale di fatti che rende arduo definire lo stato di salute dei due poli.
La litigiosità delle coalizioni caratterizza il Paese da sempre. Il centrodestra pare unito attorno a singole battaglie identitarie (l’egemonia culturale, alcuni temi etici, il rifiuto di un’ideologia “green” totalizzante), ma ancora diviso da beghe tattiche che rivelano nello schieramento, ora folgorato sulla via di un europeismo blando, l’assenza di una strategia globale sul destino del Paese, anche sulle sue riforme-chiave, non a caso trasformate in bandiere delle singole fazioni. Il centrosinistra, trainato dal Pd galvanizzato da Schlein, si arresta però davanti all’indeterminatezza della linea della leader dem. Impressiona di più il frantumarsi della maggioranza, reduce da un vertice in cui con evidenza i leader non hanno dato ascolto alla premier Meloni: è presto per parlare di crisi, ma dopo due anni pare calato il suo ascendente sugli alleati, intenti a “farsi notare”. Come colpisce che la Lega abbia rispolverato verso Forza Italia l’accusa di “partito-azienda”, attento alle ragioni di Mediaset. La legislatura è lunga, un chiarimento si impone in ambo le sponde. Una guerra di logoramento non giova a nessuno. A meno di non rifugiarsi in questo “comodo” schema bi-populista che scalda le rispettive tifoserie, sempre più esigue, ma non dota il Paese di una politica industriale, di investimenti, di riforme istituzionali condivise, insomma di tutte le condizioni per assicurare un maggior benessere diffuso.