Giovanni Guareschi (1908-1968)
Mondo Piccolo. È il mondo raccontato da Guareschi, quella «fetta di pianura che sta tra il Po e l’Appenino » ( Mondo Piccolo. Don Camillo, 1948, p. XI). Un mondo molto piccolo, troppo piccolo per noi, ma certamente un mondo che ancora ci affascina, ci chiama, ci interroga in un tempo quando il mondo è diventato grande, molto grande, certamente troppo grande per starci bene senza subire l’angoscia dello “spaesato”. Lo spaesamento è la grande nota antropologica e spirituale del terzo millennio – abbiamo globalizzato il mondo, abbiamo abbattuto tutti i campanili, e ci stiamo perdendo. Don Camillo e Peppone hanno molti difetti, alcune virtù, ma non sono spaesati: vivono sotto lo stesso campanile simbolico.
Mondo Piccolo nacque alla fine del 1946, e per una ventina d’anni più di trecento puntate hanno allietato il mondo – nell’edizione del 1953 di Mondo Piccolo. Don Camillo e il suo gregge, Rizzoli indicava 27 Paesi dove Don Camillo era stato tradotto. È lo stesso Guareschi che ci racconta quella provvidenziale nascita: «“Perché ogni volta ti riduci all'ultimissimo minuto?”. Io non mi sono mai pentito nella mia vita d'aver fatto l'indomani quello che potevo fare oggi... Io la ricordo, l'antivigilia del Natale del 1946. A causa delle feste bisognava finire il lavoro prima del solito... Allora, oltre a compilare il “ Candido”, scrivevo dei raccontini per l’Oggi: era già sera e io non avevo ancora scritto il pezzo che mancava per completare l'ultima pagina del mio giornale... “Bisogna chiudere subito il Candido!”, mi disse il proto. Allora feci cavar fuori pezzetto dall’Oggi, lo feci ricomporre in carattere più grosso e lo buttai dentro il Candido... Se io dando retta ai “funzionari” avessi preparato il mio lavoro in tempo, Don Camillo, Peppone e l'altra mercanzia di Mondo Piccolo sarebbero nati e morti l'antivigilia del Natale 1946... E invece, così scherzando scherzando, due ore fa io ho consegnato (all'ultimissimo momento e fra il disgusto dei “funzionari”) la 200ª puntata di Mondo Piccolo» . ( Don Camillo e il suo gregge, 1953, pp. XII-XIII).
Giovanni Guareschi (1908-1968) è uno dei pochi classici della letteratura popolare, e l’aggettivo “popolare” amplifica il sostantivo. In Italia la sua vita e la sua opera furono molto tormentate. Era nato a Fontanelle (Parma), un paese della Bassa. Figlio di una maestra e di un commerciante di biciclette: «Quando ero ragazzo, mi sedevo spesso sulla riva del grande fiume e dicevo: “chissà se, quando sarò grande, riuscirò a passare sull'altra riva!”... Adesso ho quarantacinque anni e spesso vado a sedermi come allora sulla riva del grande fiume e, mentre mastico un filo d’erba, penso: “si sta bene qui, su questa riva”» ( Don Camillo e il suo gregge, p. XIV). I niziò presto a lavorare come vignettista e cronista. Nel 1942 fu arrestato per aver detto parole oltraggiose verso il fascismo e Mussolini. Il 9 settembre del 1943 fu fatto prigioniero dai tedeschi, quindi internato in diversi campi in Germania e in Polonia, fino al settembre 1945. Così lui racconta quell’esperienza decisiva: «Mi trovai invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi, all'inizio, e in qualità di italiano prigioniero dei tedeschi alla fine. Gli anglo-americani nel 1943 mi bombardarono la casa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia... Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell'oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso» ( Diario clandestino, 1949, p. IX). Parole di una immensa intensità e profondità, che non ci aspetteremmo dall’autore di Peppone e Don Camillo, perché non lo abbiamo letto con attenzione, e perché, non conoscendo la Bibbia, pensiamo che i discorsi profondissimi e lo humour non possano stare insieme.
Nel dopoguerra la sua critica pubblica continuò, ma non solo contro il comunismo, come è ampiamente (e troppo) noto. In realtà, Guareschi era un critico radicale e severissimo di tutto ciò che gli appariva finto, falso, ideologico, conformista, ipocrita e opportunista. Fu, infatti, molto criticato da Togliatti (il “trinariciuto’), ma a farlo condannare furono un liberale e un democristiano. Nel 1950 fu condannato per vilipendio a otto mesi di carcere (non scontati perché incensurato) per una vignetta de Il Candido dove aveva criticato l’uso mercantile che Luigi Einaudi, allora Capo dello Stato, aveva fatto della sua funzione istituzionale per promuovere un suo vino – “Nebbiolo, il vino del Presidente”. Ancora più nota è la querela di Alcide de Gasperi per aver pubblicato, nel 1954, due lettere (poi rilevatesi false) nelle quali de Gasperi chiedeva nel 1944 agli Alleati il bombardamento di Roma. Passò 409 giorni in carcere a Parma, e non volle ricorrere in appello: «Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia », disse. Da questa esperienza devastante non si riprese più. Aumentò il suo isolamento. Nel 1957 lascia la direzione de Il Candido, nel 1961 avrà un primo infarto; il secondo, nel 1968, gli fu fatale.
La sua non è stata una vita di successo, nonostante l’enorme successo internazionale delle sue opere. Fu invece una esistenza costellata da critiche cattive e ingiuste, emarginazione, ridimensionamento delle sue opere declassate a storielle da ridere, e lui derubricato a macchiettista. Guareschi non si è mai dato arie da scrittore. Non frequentava gli ambienti letterari che contavano, non ha vinto il Nobel (anche se nel 1965 qualcuno provò a candidarlo): «Io, nel mio vocabolario, avrò sì e no duecento parole... Quindi niente letteratura o altra mercanzia del genere» ( Don Camillo, p. IX). Eppure, basta leggere i suoi racconti per capire di avere a che fare con un grandissimo scrittore. Lo è perché presenta (almeno) tre talenti che stanno insieme solo negli scrittori grandi e grandissimi. Il primo è la capacità di saper cogliere l’anima profonda di un tempo e di un luogo. Ci ha svelato la Bassa (almeno) come Levi la Lucania e Silone la Marsica. Ma, più di Silone e Levi, Guareschi è veramente dentro i suoi racconti. È dentro a molte parole e gesti di Don Camillo, ma anche di Peppone, della Signora Cristina, o del Crocifisso: «I personaggi principali sono tre: il prete Don Camillo, il comunista Peppone e Cristo crocifisso. Ebbene, qui occorre spiegarsi: se i preti si sentono offesi per via di Don Camillo, padronissimi di rompermi un candelotto in testa; se i comunisti si sentono offesi per via di Peppone, padronissimi di rompermi una stanga sulla schiena. Ma se qualcun altro si sente offeso per via dei discorsi del Cristo, niente da fare; perché chi parla nelle mie storie non è il Cristo, ma il mio Cristo: cioè la voce della mia coscienza. Roba mia personale, affari interni miei» ( Don Camillo, pp. XXXVI-XXXVII).
Il secondo talento è il dono (perché non è virtù: nessun talento è virtù) di non restare intrappolati dentro la gabbia d’acciaio del proprio temperamento, delle proprie ideologie, convinzioni e fedi, dalla quale non si liberano gli scrittori medi e piccoli. Guareschi, fino al secondo prima di scrivere le sue storie e dal secondo dopo averle scritte, non era capace di pensare le parole dei suoi personaggi. Soprattutto in alcune storie, le parole di Peppone, di Don Camillo e Gesù sono più grandi, molto più grandi delle parole di Guareschi: «Io non ho altro da dire su Mondo Piccolo. Nessuno può pretendere da un povero galantuomo che egli dopo aver scritto un libro lo debba anche capire » ( Don Camillo della Bassa, Introduzione).
E così arriviamo direttamente al terzo talento, quello che riguarda il rapporto tra lo scrittore e le sue creature. Guareschi appartiene a quei pochi scrittori che non sono i burattinai dei loro personaggi: «Ora non è che io mi dia le aree del creatore: mica dico di averli creati io. Io ho dato ad essi una voce. Chi li ha creati è la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sotto braccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto» ( Don Camillo e il suo gregge, p. XIV). All’inizio di Mondo Piccolo è stato Giovannino a portare a braccetto i suoi protagonisti; poi sono stati Peppone e Don Camillo a portare a braccetto Guareschi, in storie, emozioni, parole che Giovannino non sapeva né immaginava in quella antivigilia del 1946. Guareschi non avrebbe battezzato il figlio di Peppone col nome di “Lenin”: Don Camillo sì ( Don Camillo, p.7); Guareschi non avrebbe corretto l’italiano del discorso di Peppone, Don Camillo sì (p.17); Guareschi non si sarebbe pentito per aver scritto “Peppone asino”, Don Camillo sì (p.12). Ogni grande opera è, per i suoi lettori, catarsi e metànoia; per il suo autore è, quasi sempre, anche risurrezione.
Tra le parole che, probabilmente, Guareschi non voleva scrivere, e invece scrisse, c’è il messaggio principale e forse più bello del libro: Don Camillo e Peppone litigano sempre, fanno anche a botte, sono diversi in tutto ma... nelle inondazioni del grande fiume vanno insieme lungo l’argine per salvare il paesello – lo vedremo. Che è esattamente quanto manca oggi alla nostra politica e società. Poi ci commuoviamo anche noi nel leggere da Guareschi: « E, sul finire del 1951, quando il grande fiume ha spaccato gli argini e ha allagato i campi felici della Bassa, e da lettori stranieri mi sono arrivati pacchi di coperte e indumenti “per la gente di Don Camillo e di Peppone”, allora mi sono commosso» ( Don Camillo e il suo gregge, p. XIV). Per tutte queste ragioni ho deciso di commentare Don Camillo di Guareschi. Ma la ragione più profonda è un’altra. Sono stato sedotto dai dialoghi tra Camillo e Gesù. Peppone ci appare quasi sempre insieme ai suoi compagni e alla sua famiglia. Don Camillo è solo. Il suo unico compagno è Cristo, con cui sa parlare, dialogare. Quel mondo piccolissimo diventava infinito in quei faccia-a-faccia, semplicemente meravigliosi. Saremo capaci di ritornare a parlare con Gesù?
l.bruni@lumsa.it
Ricordo un tramonto percorrendo in auto una strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Salì in auto con qualche diffidenza, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato. Lo riportammo poi indietro in fretta: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara. (Ernesto De Martino, "La fine del mondo")