Attacchi personali, insinuazioni sulla famiglia, rivelazioni più o meno attendibili, falsi costruiti con l’intelligenza artificiale. La campagna elettorale americana, ormai entrata nel vivo dopo che il “super-martedì” ha di fatto concluso le primarie, potrà essere segnata da colpi di scena capaci di ribaltarne i risultati, ma s’annuncia in ogni caso un brutto spettacolo. Non una sorpresa per chi segue anche da lontano le vicende statunitensi; se ne è avuta ulteriore conferma con il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Joe Biden e dal contro-discorso via social media di Donald Trump, entrambi con aspri toni d’attacco.
Inutile sottolineare quanto sia cruciale la scelta del capo della superpotenza mondiale. Più interessante cercare di capire perché si sfidano due leader anziani che sembrano essere “subiti” dall’elettorato, insoddisfatto dalla loro caratura, e com’è possibile che i candidati alla Casa Bianca siano preda di una tale isteria e mancanza di fair play.
Una chiave di lettura può venire da uno sguardo più lungo sulla storia recente del Paese, che non è nato con X (ex Twitter) e lo smartphone. Secondo la documentata e autorevole ricostruzione del politologo Robert Putnam, dalla metà degli anni Sessanta la vita pubblica degli Usa è andata caratterizzandosi per una crescente faziosità che ha creato una società e un’arena politica profondamente polarizzate. Ciò significa partiti coesi nello scontro e una competizione che esclude terreni comuni, nega il compromesso e finisce con il demonizzare l’avversario.
All’inizio del 1964, il democratico Johnson aveva l’approvazione dell’84% degli elettori dei democratici, mentre i repubblicani lo appoggiavano per il 64%. Tra il 2013 e il 2019, in media aveva un giudizio positivo sul presidente l’88% degli iscritti al suo partito e solo l’8% dello schieramento all’opposizione. Il cosiddetto tribalismo ideologico si è esteso tanto che, tra il 1960 e il 2010, l’ostilità dei genitori all’idea che i propri figli sposino una persona registrata con un partito diverso dal proprio è cresciuta dal 4 al 33% tra i democratici e dal 5 al 49% tra i repubblicani. E sono più che raddoppiate le percentuali di chi considera “stupidi” o “egoisti” gli avversari politici.
Ma sono i cittadini che hanno chiamato rappresentanti più estremisti o è accaduto il contrario? Si tratta di una domanda chiave anche per l’oggi e non ha una risposta definitiva. La maggior parte degli esperti tende però a pensare che sia stata l’offerta a tirare la domanda. È rimasto famoso il discorso che Ronald Reagan pronunciò nel 1973: “Abbiamo bisogno di una parte che alzi vessilli senza pastelli pallidi ma con colori audaci”, inconfondibili. E un suo inane epigono, Steve Bannon, che l’ex attore-presidente avrebbe sicuramente disconosciuto, ha dichiarato di recente in un’intervista che Trump dovrà usare messaggi “choccanti”.
Da dove viene questa sempre più forte spaccatura progressisti-conservatori? Un’ipotesi accreditata è che nasca dalle leggi sui diritti civili promulgate da Lyndon Johnson, all’epoca fortemente divisive, tanto da costare ai democratici l’intero Sud del Paese dove la segregazione dei neri era ancora fortissima. Di lì la collocazione sempre più netta sui temi principali posti al centro del dibattito, dall’aborto (la liberalizzazione è del 1973) al ruolo dello Stato e la tassazione (ancora Reagan nel suo discorso di insediamento disse che “il governo non è la soluzione al nostro problema, il governo è il problema”), la difesa dell’ambiente, l’istruzione e oggi le guerre culturali sul woke e la critical race theory.
All’origine di tutto c’è davvero il tema della razza e dell’integrazione delle minoranze? Forse oggi non è più solo questo, anche se la battaglia sui migranti – sempre più osteggiati - può costituirne il nuovo volto. E forse non costituidsce un caso che il primo palese fake diffuso dai sostenitori di Trump sia stata la foto in cui il tycoon è circondato da un gruppo di sorridenti persone di colore. In ogni caso, non è solo dei repubblicani la tendenza all’estremismo. La linea centrista di Bill Clinton fu contestata dalla sinistra dei democratici, in particolare Jesse Jackson, mentre oggi emerge la rumorosa ala radicale capeggiata dalla giovane deputata Alexandria Ocasio-Cortez e il movimento pro-Palestina, che spinge Biden a una discontinuità in politica estera e a maggiore impulso riformatore in patria, senza concedere nulla all’altro versante del Congresso.
Questo Paese che si spacca con animosità, delegittimando chi dissente, ha infine trovato nelle nuove tecnologie di comunicazione l’arma finale, fatta di immediatezza, emozioni, protesta e irrazionalità, per mandare in crisi i meccanismi rappresentativi. Resta allora da domandarsi perché una metà della nazione in costante ebollizione (va ricordato infatti che molti restano esclusi o si chiamano fuori dal processo politico) si rassegni a due figure che non sembrano esprimere quella veemente freschezza che sarebbe sensato aspettarsi sul ring della Casa Bianca. Qui sembrano avere ancora un ruolo alcune logiche classiche. Joe Biden non solo è l’ex presidente uscente. È probabilmente anche l’unica figura in grado di tenere insieme un partito e un elettorato divisi da spinte centrifughe; pur con i forti limiti dell’età, rappresenta un navigatore di lungo corso capace di battere il concorrente e non alterare troppo i fragili equilibri del momento. Dall’altra parte, Donald Trump è l’uomo di successo che incarna le sensibilità di chi si riconosce nella destra Usa, con il suo profilo sociale ed economico, eppure anche sufficientemente populista e “arrabbiato” per conquistare la classe lavoratrice dell’America profonda, non importa se pluri-inquisito e tentato da mosse autoritarie.
Come finirà ha molta importanza per tutti. Prima di concentrarsi sui possibili esiti del voto Usa - al 5 novembre manca ancora tempo -, si deve ragionare del modo in cui ci si arriverà. E le premesse non sono le migliori.
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