«La vanità, il potere, i soldi... Chi comanda? Le ambizioni e sempre nelle istituzioni, nelle comunità ecclesiali, sempre questa voglia di arrampicarsi, di salire più in alto, di avere il potere...». Così è quando si dice papale-papale. Così di nuovo, ieri, Francesco senza giri di parole è andato dritto a stigmatizzare quella nefasta e diffusa 'tentazione mondana' che divide, lacera, distrugge la Chiesa perché «non è lo Spirito di Gesù». E anzi perciò «fa bene pensare alle tante volte che noi abbiamo visto questo nella Chiesa e alle tante volte che noi abbiamo fatto questo, e chiedere al Signore che ci illumini, per capire che l’amore per questo spirito mondano è nemico di Dio». Cosa vuol dire per un cristiano non essere nemici di Dio e del prossimo e come non esserlo lo ha descritto l’altro ieri all’apertura dell’assemblea della Cei profilando l’identikit dell’autentico sacerdote in un discorso-testimonianza che rimanda per filo e per segno al decreto conciliare
Presbyterorum ordinis. E dunque alle istanze che connotano e costituiscono da sempre il Dna del battezzato e che principalmente caratterizzano i preti sul modello di Cristo: il servizio e la povertà. Inscindibili proprio perché insieme disegnano le fattezze del Figlio di Dio. Del servizio Francesco ha detto anche ieri a Santa Marta: «Il mondo parla di chi ha più potere per comandare, Gesù afferma di essere venuto al mondo 'per servire', non 'per essere servito'». Questo quindi è anche il messaggio di oggi per la Chiesa, perché «nella strada che Gesù ci indica per andare avanti, il servizio è la regola». Quanto alla povertà, che mai in termini di virtù si separa dall’umiltà, è virtù regale perché sbaraglia la cupidigia dei beni terreni, di qualunque specie siano: denaro, onori, prestigio, fama. E per quanto attiene ai beni materiali, nel discorso alla Cei ha ricordato che il prete non deve cercare nulla che vada «oltre il reale bisogno» e dunque anche nella «gestione delle strutture e dei beni economici». Perché in una visione evangelica appesantirsi in «una pastorale di conservazione, ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito», pertanto ha invitato a mantenere «soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio». È quanto in altri termini è espresso nel decreto
Presbyterorum ordinis, che nel capitolo sulla povertà invita i sacerdoti nella vita pastorale in mezzo al mondo a «non affezionarsi in alcun modo alle ricchezze», evitando «ogni bramosia e astenendosi da ogni tipo di commercio»; «vedano di eliminare nelle proprie cose ogni ombra di vanità» e «più ancora degli altri discepoli del Signore, tutto ciò che possa indurre i poveri ad allontanarsi». In vista dell’ascesi sacerdotale il decreto richiama anche qualche norma che rappresenta il
minimum di una povertà sacerdotale. Si tratta di beni ecclesiastici? Impiegarli «per la sistemazione del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostentamento delle opere di apostolato e di carità, specialmente per i poveri». Si tratta di beni procurati «in occasione di qualche ufficio ecclesiastico»? Messi a posto il proprio «onesto sostentamento» e i doveri del proprio stato «il rimanente sarà bene destinarlo per le opere di carità». Questo il
minimum. Ma il Concilio invita alla «povertà volontaria con la quale i presbiteri possono configurarsi a Cristo in modo più evidente». Povertà non solo ascetica, ma anche pastorale. Richiamava il decreto conciliare sul ministero e la vita dei sacerdoti anche il futuro Giovanni Paolo I quando ancora negli anni Sessanta si esprimeva riguardo alla povertà ecclesiale: «La povertà ecclesiale l’ha inalberata Cristo con tutti i veri riformatori da san Francesco». E chiedeva se essere sociologicamente povero avesse valore o no. «Non in se stesso – scriveva – ma in quanto dispone naturalmente alla povertà evangelica-spirituale: chi è povero è più disposto a confidare in Dio, chi è ricco è portato a dimenticare Dio: per questo Cristo è duro con la ricchezza (non è che fosse risentito contro i ricchi per motivi populistici, ma per motivo religioso: la ricchezza vi impedisce di aprire il cuore al desiderio del Regno di Dio)». E concludeva riguardo alla povertà ecclesiale: «Dovere della povertà evangelica per tutti i cristiani... Più per i vescovi, preti, religiosi. La ragione: rappresentano – agli occhi del mondo – la Chiesa di più». Nel 1966, scrivendo
Il sacerdote diocesano alla luce del Vaticano II, affermava: «Qualcuno aveva detto: 'Se il Concilio di Trento di Trento è stato il Concilio della castità del clero, il Vaticano II sarà il Concilio della povertà del clero'. È forse un’esagerazione, ma è vero che su questo punto siamo sorvegliati: qui la gente ci aspetta oggi». Una affermazione che Luciani prese in prestito dal vescovo Enrico Bartoletti, segretario generale della Cei nel 1972, che si prodigò affinché le indicazioni del Vaticano II venissero recepite ed attuate dalle diocesi dalle parrocchie, e il cui orientamento pastorale centrato sull’annuncio diede l’impronta al primo piano pastorale della Cei. Leggere dunque i discorsi del Papa in un ambito ideologico pauperista rappresenta solo una vecchia forzatura in malafede. Poco infatti si capirebbe anche dello spirito di governo di Francesco senza affondare nel mai dimenticato fondamento di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, vicina agli insegnamenti dei Padri sul modello del Vangelo di Cristo e della sua predilezione per i poveri.