Per la prima volta, nel giorno della Festa dei nonni ci hanno fatto gli auguri. Nonni da una settimana. Un grande fiocco azzurro sulla porta di casa.
Ciò che è più vivo, e da cui ancora non mi riprendo, è lo stupore. Il vederti davanti il figlio di un figlio appena venuto al mondo è un sussulto al cuore: se un elettrocardiogramma registrasse quel momento, che punta acuta traccerebbe - come l’onda di un sisma improvviso. Il primo, inesorabile stupore è la creatura che hai davanti, i suoi occhi, la bocca, le piccole mani. Sbalordimento: questo è un uomo, e nove mesi fa non c’era. Non c’era nulla di lui. Poi, lo scoccare di un istante fra due schegge di materia (roba che nei laboratori oggi si maneggia e si tratta con disinvoltura). Ma, se era solo materia, come ne viene un bambino? Anche il più ateo degli uomini, se non è totalmente distratto, davanti a un neonato dovrebbe corrugare un momento la fronte, toccato da questo enigma, da questo inesauribile mistero.
Certo, già questo è accaduto, e con la forza di una tempesta, quando a partorire eri tu. Allora era stato davvero, nel dolore del travaglio, come quando soffia un vento impetuoso, che strappa e sconvolge. Ora, è il figlio di un figlio: e di quel temporale ti arriva un’eco mansueta. Ma si rinnova lo schiaffo dello stupore, e ti ridesta, ora che sei quasi vecchia, ora che ti sembra di sapere ormai come va il mondo, e ti ci sei abituata. Un’iniezione di vita, e quasi il sangue che si rafforza nelle vene. Quanto bene fa meravigliarsi di nuovo, quando il passare degli anni ti ha insegnato tante cose, ma forse ti ha fatto dimenticare le essenziali.
E questa scossa, pensi, per i nostri padri era abituale: era normale nella vecchiaia essere circondati da nipoti. Oggi è una cosa che non accade a tutti, piene le nostre città di anziani soli. Ma quanto incideva, nel vivere comune, la vita che continuava nei figli dei figli: quanto in allegria, tenerezza, senso stesso del vivere. Quanto, collettivamente, pesava l’avere dei discendenti, nel desiderio di costruire un mondo che continuasse per i figli dei figli. ( In un universo di uomini senza eredi che importa, a tanti almeno, di ciò che verrà, se non rimane qui nessuno che si ama?)
Stupore per quel bambino, e gratitudine. Grazie, per questo dono. Te lo mettono in braccio: lui, sazio di latte, ti si addormenta addosso. Ne senti il calore di cucciolo, e il respiro calmo nel sonno. Lo guardi: ha il naso di tuo figlio, che è poi lo stesso, padano, ingombrante, di tuo padre. E gli occhi scuri ti richiamano, in una frazione di secondo che ti taglia il cuore, quelli di tuo fratello, che è morto. La vita come una vena d’acqua carsica che scompare ma riaffiora, sorgiva, nel tempo che scorre, e apparentemente cancella ogni cosa. Nei geni invece abbiamo scritta indelebile una storia che ci segue, vecchia di mille anni. Eppure eccola, in una mattina d’autunno del 2020, che comincia da capo.
Tu, sei l’anello di una lunga catena. E in questa consapevolezza, a sessant’anni, finalmente si attenua quella centratura su sé stessi, quell’idolatria dell’Ego che è il marchio del nostro tempo. 'Io' faccio, 'io' ottengo', 'io' mi realizzo, che ossessione. Dentro la catena di vita che oggi in un figlio di un figlio intravvedi ti riappacifichi con te, con ciò che non hai fatto o non hai ottenuto. Come quando dall’alto di un campanile vedi la tua città oltre la tua casa, dentro la trama di migliaia di altre case e altre storie. L’orizzonte si allarga, e si rasserena.
Guardi questo bambino che nove mesi fa non c’era e ti è evidente il mistero. Siamo dentro a un disegno: «Prima di formarti nel grembo di tua madre, Io ti conoscevo», ti rintoccano dentro le parole del Libro di Geremia. E, anche, quelle di un Salmo: «Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!». Era, nei tempi antichi, un augurio, anzi la più grande benedizione. Quando gli uomini sapevano molte meno cose, ma non avevano scordato le essenziali.