Il lavoro è giustamente al centro della contesa elettorale. Diverse forze politiche hanno però finora sviluppato unicamente la pars destruens, la rottamazione di quanto fatto negli anni passati, senza ancora avanzare proposte costruttive e di prospettiva. E in quest’ottica si può leggere l’assenza pressoché totale di un tema, che ci si sarebbe aspettati avere più spazio, o almeno qualche convinto richiamo progettuale: le politiche attive.
Si tratta certamente di un tema spinoso, dove è difficile fare proposte realmente innovative e rispetto al quale il Governo in carica ha faticato non poco, rendendo difficile utilizzare quello delle politiche attive come un fiore all’occhiello dei risultati raggiunti dal Jobs Act. Ma allo stesso tempo si tratta di un tema centrale, troppo spesso banalizzato e quindi abusato. Sconta soprattutto il limite di essere ancora pensato per un mercato del lavoro che non c’è più, quello del Novecento industriale, dove era ancora facile la ricollocazione da posto a posto.
Anche per questo, e per i troppi errori del passato, quello delle politiche attive rischia di diventare un elenco di buone intenzioni e, al tempo stesso, di false promesse. Eppure delle politiche attive e di ricollocazione dobbiamo tornare a parlare perché è grazie a loro che si costruisce l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro in un mercato sempre più mutevole, flessibile e imprevedibile. Formazione, riqualificazione, bilanci di competenze e soprattutto orientamento sono tra gli strumenti principali che possono servire a un lavoratore che voglia affrontare una carriera che, volente o nolente, sarà sempre più discontinua. E non è un caso che proprio al forum di Davos si sia parlato in questi giorni della riqualificazione dei lavoratori nei termini di una nuova rivoluzione da avviare.
Ma quando si parla di politiche attive occorre tenere in mente almeno due fattori, tra loro molto legati. Il primo è che non stiamo affrontando unicamente un nodo politico e di regolazione dei mercati del lavoro, quanto un nodo culturale. Gli ultimi dati Eurostat mostrano come in Italia l’82% della popolazione ricorra ancora a parenti e amici come canale principale per la ricerca del lavoro. Non abbiamo ancora sviluppato una cultura dei servizi per il lavoro.
E questo non solo per gli scarsi risultati che il sistema pubblico produce, anche i dati sull’utilizzo delle agenzie private sono infatti bassi, nonostante l’aumento dei lavoratori in somministrazione. Il dato culturale è il risultato di diverse caratteristiche dell’economia italiana: dalla dimensione delle imprese alle grandi differenze territoriali, dalla cultura del posto fisso a decenni di ammortizzatori sociali usati male. Del tutto assente è poi il segmento del collocamento organizzato da scuole e università che ha invece un ruolo strategico nei moderni mercati del lavoro che mettono al centro dei processi di impresa la formazione e le competenze professionali.
Da qui l’importanza dei percorsi di apprendistato scolastico e universitari che ancora non decollano nel nostro Paese e che invece sono motivo di vanto delle economie che meglio hanno intercettato le sfide dei noi mercati e dei nuovo modelli d’impresa. Occorre quindi lentamente intervenire su questa profonda criticità sviluppando una cultura dei servizi al lavoro che necessariamente ha bisogno di tutti gli attori, non solo coloro che sono specificatamente adibiti a questo, ma è fondamentale il ruolo delle imprese, dei sindacati, delle istituzioni locali, delle scuole e delle università.
Il secondo elemento è anch’esso di natura culturale. Troppo spesso si sono immaginate le politiche attive unicamente come una modalità per riqualificare i lavoratori senza partire dai loro bisogni, ma dai bisogni astratti di un sistema industriale che nel frattempo era in profonda trasformazione.
E così, e questo viene denunciato soprattutto nei Paesi in cui tali politiche sono state svolte molto più che in Italia, si sono traditi centinaia di migliaia di lavoratori illudendoli che bastassero corsi di formazione per poter tornare sul mercato. Al contrario la mutevolezza dello scenario oggi impone politiche attive che partano dalle capacità e dalle competenze delle persone, prendendo atto che non ogni strategia di riqualificazione è possibile e che un esercizio a tavolino è spesso molto dannoso.
La priorità resta comunque quello di collocare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro fuori da logiche burocratiche e centraliste. Per investire sulle persone occorrono logiche di prossimità e di comunità: robuste reti sociali di appartenenza dove le identità personali e anche le diversità vengano esaltate come fattori di forza e come opportunità di una società che non vuole lasciare nessuno indietro.