La colpa, al solito, è dei nemici della rivoluzione e degli agenti delle potenze nemiche. La prevedibile lettura del dilagare delle proteste da parte della Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, l’ayatollah Khamenei, non offre motivi di sorpresa. Da decenni, ogni qual volta, la popolazione iraniana mostra la propria insofferenza verso il regime, la lettura ufficiale è sempre la stessa. Ma più complessi – e per Teheran più preoccupanti – sembrano essere i meccanismi reali di queste dimostrazioni popolari, le più forti dai brogli elettorali del 2009, e certo le più violente.
Iniziate nella città di Mashhad, uno dei feudi dei conservatori ostili al presidente moderato Rohani, le proteste sembravano seguire l’usuale schema di esasperazione per la difficile congiuntura economica, la perdita del potere di acquisto di salari e pensioni, l’alto tasso di disoccupazione. Molti sospettano che siano state incoraggiate proprio per mettere in difficoltà il governo moderato. Rohani da anni cerca inutilmente di ridurre le storture economiche di un Paese dominato dal clientelismo, dalla corruzione, dalla presenza di potentati economici che sfuggono a ogni controllo, legati alle fondazioni del clero o alle società ombra dei potentissimi pasdaran, le guardie della rivoluzione, sempre più una sorta di stato nello Stato. Il presidente ha cercato inutilmente di ridurne lo strapotere e la tracimazione nei gangli economici e produttivi; il fallimento è dovuto non solo alla debolezza dei suoi poteri, ma soprattutto al contesto geostrategico di questi anni: le sanzioni internazionali, la guerra civile in Siria e l’ascesa di Daesh nel Levante hanno infatti ulteriormente accentuato il ruolo dei pasdaran.
L’Iran ha, sì, vinto momentaneamente la sua partita contro l’Arabia Saudita e i suoi alleati sunniti sulla grande scacchiera del Levante, ma i prezzi umani, sociali e economici sono spaventosi. Gli aiuti finanziari e militari a Damasco e Baghdad, la creazione delle milizie popolari sciite, armate e finanziate da Teheran, il sostegno a Hezbollah e ai gruppi sciiti in Yemen si sono aggiunti ai costi enormi delle sanzioni occidentali per il programma nucleare iraniano. Un peso che un’economia così disfunzionale come quella iraniana fatica a sostenere. E che esaspera la popolazione.
La novità in questa ondata di proteste è il coinvolgimento di settori della popolazione finora poco inclini alla mobilitazione. In passato, chi manifestava faceva generalmente parte di una élite intellettuale, studenti universitari, abitanti delle grandi città, giovani impegnati politicamente. Le loro proteste, pur represse duramente, non sfociavano quasi mai nella violenza. Ora, sembrano essersi mossi - e in modo molto più diretto - anche gli strati sociali più disagiati. Da sempre blanditi dal regime con un mix di populismo, retorica e controllo sociale. Ricetta che ora non sembra più funzionare, anche perché le scelte del governo moderato cercano di limitare il clientelismo di Stato tipico dei conservatori.
Ma a questo tipo di proteste sembrano aggiungersi motivazioni molto più preoccupanti. Sono segnalati casi di assalti alle stazioni di polizia, in particolare nelle zone ove la comunità sunnita di origine araba è numericamente forte e politicamente vessata. Non è un mistero che Stati Uniti, Paesi arabi e Israele cerchino da anni di usare contro l’Iran la carta del settarismo, stimolando e sostenendo le minoranze etniche e quella sunnita. Una politica che non ha mai dato grandi risultati, ma che ora, un po’ per la crisi economica un po’ per l’acuirsi della polarizzazione fra sciiti e sunniti, qualche grattacapo potrebbe darlo anche a Teheran.
La brutale risposta dei pasdaran, che già nei mesi scorsi avevano rafforzato la loro presenza all’interno dei centri urbani, dimostra che il regime non vuole correre rischi.
Anche se questo tipo di 'ricetta' finisce per essere sempre molto pericolosa, nel lungo termine. Il presidente Rohani, al contrario, cerca di giostrarsi fra il garantire il diritto di protesta e la necessità di fermare le violenze, ma al momento non sembra in grado né di dialogare con chi protesta né di limitare i falchi sopra di lui. Visti i costi pagati e l’ostilità regionale suscitata, la vittoria geostrategica in Siria e Iraq rischia di rivelarsi una vittoria di Pirro. A partire proprio dal fronte interno.