Ieri mattina dietro la redazione di "Avvenire", in una via anonima, davanti a una vecchia casa, degli operai hanno murato sul marciapiede quattro piccole lapidi di ottone. Sul cemento fresco qualcuno ha lasciato una rosa. Percorro ogni mattina quella strada e dunque mi sono fermata a leggere le lapidi. Erano quattro nomi, una famiglia con due bambini: ebrei deportati in Germania, catturati il 15 dicembre 1943. Morti ad Auschwitz, c’era scritto sotto le date di nascita. Si chiamano "pietre di inciampo", queste piccole insegne che ora vengono poste davanti alle case dei deportati. E davvero sono qualcosa in cui inciampi, e quasi cadi. Quante centinaia di volte ho percorso questa strada della Maggiolina, c’è una trattoria in cui si mangia coi colleghi, non c’è mai posto per parcheggiare, la so a memoria la piccola via Bizzoni. Credevo, almeno. Mai avevo saputo che nella vecchia solida casa al numero 7 abitava questa famiglia Piperno con i due figli, Rambaldo e Renzo, di 13 e 11 anni, e che ne furono tutti portati via con la forza, in una mattina d’inverno.
Una mattina forse come questa, di sole pallido, però sotto Natale: e nelle case attorno già allestiti i presepi. Mi è sembrato di vederla quella mattina, era molto presto, quando è ancora buio e tutti sono a letto. Un furgone che frena stridendo, le portiere che sbattono, passi di corsa sulle scale, un campanello premuto con prepotenza. E quei quattro in pigiama, atterriti, sbarrati gli occhi dei bambini. Qualche vicino che socchiude la porta e subito la richiude. E grida, e pianti, e di nuovo passi precipitosi giù per le scale, e il portone che sbatte. Qualcuno si affacciò alle finestre? Forse guardarono dalle fessure delle persiane i condomini, sgomenti, per non farsi vedere, per non mostrare di immischiarsi. Poi il furgone partì sgommando, e nel quartiere sembrò una mattina come le altre: i bambini andarono a scuola, nelle villette liberty coi balconi avvinghiati dai glicini si fecero le quotidiane pulizie. Venne infine il 25 aprile, venne la pace, ma quei quattro non tornarono.
Quand’ero ragazza pensavo all’Olocausto come a una tragedia atroce, ma incalcolabilmente lontana nel tempo, ci pensavo come a un evo remoto e incredibile. Ma ora mi accorgo che questa famiglia Piperno venne catturata nemmeno vent’anni prima della Milano pacifica e benigna della mia infanzia. Nemmeno vent’anni, l’età di mia figlia, che mi pare ieri che è nata. Cambia, invecchiando, la percezione del tempo. L’Olocausto, da incubo remoto si è fatto per me più vicino; e vicinissimo ieri mattina, mentre immobile leggevo le quattro piccole lapidi sul marciapiedi. Necessarie, fondamentali queste pietre in cui inciampare, per sapere e ricordare. In un mondo che perde facilmente la memoria, quei nomi scolpiti per terra, per sempre.
«Bisogna reagire a una cultura della paura che, seppur in taluni casi comprensibile, non può mai tramutarsi in xenofobia o addirittura evocare discorsi sulla razza che pensavamo fossero sepolti definitivamente», ha detto l’altro giorno il presidente della Cei Gualtiero Bassetti. Già, «razza», è stata detta pubblicamente questa parola, da un candidato alla presidenza della Regione Lombardia. E, peggio, i sondaggi hanno registrato che dopo una tale uscita la popolarità del candidato è cresciuta.
Razza. La credevamo sepolta, questa espressione, sprofondata nella storia. Dovremmo invece tutti inciampare in quelle pietre, fermarci, leggere i nomi, le età, il destino di quegli sconosciuti. Dovremmo perdere un minuto a immaginare le grida, i pianti dei bambini come Rambaldo e Renzo, lo strazio della madre, il terrore – e le finestre delle case attorno richiuse piano, senza far rumore. Per imparare di nuovo come pronunciarla, quella parola. Soltanto a voce bassa, con timore e vergogna.