Sì, di «precarietà si muore» come ha detto il Papa aprendo con un intenso videomessaggio i lavori della 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani. Di precarietà si muore perché si è trattati poco più delle bestie e nei campi, senza riposo, a schiena piegata per qualche euro dall’alba al tramonto, basta il caldo a ucciderti. Si muore sulle impalcature, perché quando sali su un furgone che è ancora notte ed entri in un cantiere da “clandestino”, a chi vuoi che importi se hai l’imbragatura: basta un colpo di sonno, una distrazione e cadi giù, tanto domani ce ne saranno altri cento, altri mille che possono prendere il tuo posto.
Ma di precarietà si muore anche a poco a poco: quando lavori qualche giorno e stai settimane a casa, quando sei giovane e il tuo futuro è un rubinetto che perde: una goccia, il niente, un’altra goccia. Senza che mai la tua vita possa finalmente aprirsi e fluire libera, impetuosa come vorresti, come dovrebbe. Perché sei giovane e pieno di energie, perché sei una persona con la tua dignità intangibile, perché sei un uomo o una donna e il lavoro è il modo con cui ti guadagni lo stare al mondo, realizzi te stesso ed entri in relazione con gli altri. E se tutto questo ti è precluso, impedito, se non riesci a formare una famiglia e mettere al mondo dei figli come pure desideri, se non puoi mettere in atto ciò per cui hai studiato, ti sei impegnato, questa precarietà ti uccide non il corpo ma l’anima sì.
«È immorale», dice ancora il Papa, proprio perché scava dentro, svuota come un tarlo che consuma. E non è solo una questione di contratti più o meno a termine: si può essere precari perché da impiegato diventi esubero, perché ci si sente esclusi per età o perfino per il troppo lavoro, schiacciati da orari e obblighi e pretese che non lasciano spazio e tempo alle altre dimensioni della persona: la famiglia, le relazioni sociali, la spiritualità.
La «precarietà uccide» tutte le volte che il lavoro non è libero, creativo, partecipativo e solidale, come recita il titolo di questa Settimana sociale. Tutte le volte che non è degno e che non dona nuova dignità alla persona che lavora e dunque alle persone con cui e per cui si lavora. Perché nessuno è una monade, solitaria e dispersa, e il lavoro è il mezzo con cui siamo più in collegamento con gli altri, cooperiamo, anche senza accorgercene, con una moltitudine di altre persone.
Ed è proprio questo rapporto intenso che papa Francesco ci chiede di cambiare sul piano culturale, di più di convertire dalla «competizione alla comunione», dall’interesse del singolo alla ricerca del bene comune. Un cambio di paradigma radicale, ma che riporta di fatto il lavoro alla sua ontologia originaria, quella di una cooperazione, di una comunione appunto, in cui il vantaggio che si persegue è quello comune, la creazione di valore che si ricerca è lo sviluppo delle persone, la crescita del benessere per cui ci si impegna è anzitutto quello delle comunità nel loro complesso.
Il piano ideale verso cui il Papa invita a incamminarci e che ci riporta a riscoprire il vero volto del lavoro, non è vuota utopia, il riconvertire la competizione in collaborazione non è ideologia, ma alzare l’obiettivo dal singolo alla pluralità, dal merito che seleziona ed esclude allo sviluppo dei talenti di tutti e per tutti. E non sono neppure semplici parole, come dimostrano il dibattito e più ancora le buone pratiche che vengono presentate in questi giorni alla Settimana sociale di Cagliari.
La Chiesa italiana ci crede fortemente, su questo è impegnata in tutti i territori. Tanto che ieri il presidente dei vescovi, Gualtiero Bassetti, ha lanciato l’idea di un «grande piano per lo sviluppo dell’Italia», basato su due pilastri: la valorizzazione della famiglia, vero motore della società, e la tutela del territorio, la sua messa in sicurezza assieme alla promozione del nostro patrimonio artistico, due filoni di sviluppo sostenibile capaci di far crescere le opportunità di lavoro in particolare per i giovani.
Dopo la lunga crisi, economica e morale del Paese, questo fra tante fragilità è un tempo di ricominciamento. Rafforzare la famiglia, mettere in sicurezza il territorio significa ripartire dalle basi, come «nel Dopoguerra, come dopo l’alluvione del Polesine o il terremoto in Friuli», ha spiegato il presidente della Cei. Per ricostruire qualcosa di più solido, che resista.
E famiglia e territorio sono anche le due dimensioni in cui la persona può sperimentare più facilmente la comunione con i propri affetti e con gli altri, sono gli ambiti in cui i vantaggi di una ricerca del bene comune appaiono più evidenti. Di precarietà si muore. E a salvarci non sarà la competizione, neppure quella meglio regolata, ma un impegno comune, cooperativo, volto al bene di tutti. La comunione ci fa forti, anziché precari; ci tiene insieme e non ci disperde; ci fa fiorire e rende a ognuno la propria dignità. Senza esclusi, senza perdenti, senza che qualcuno soccomba.