La sfidante lezione di Sturzo
domenica 26 novembre 2017

Il deciso passo avanti di don Luigi Sturzo verso la gloria degli altari, di cui abbiamo scritto con ampiezza in questi giorni, è insieme una grazia, una sfida e una provocazione. Significa che la politica non è una cosa sporca, che la santità può abitare anche tra gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama, che per essere felice la vita dev’essere insieme buona e moralmente giusta. No, non è stato facile. Non è mai semplice per un cattolico scegliere l’impegno politico. Devi fare i conti con gli ex amici che ti accusano di carrierismo, con la litania delle infinite mediazioni, con il dovere di agire per il bene di tutti pur appartenendo a un gruppo, con il rischio di evadere la realtà per osservarla dal pulpito dei privilegiati.

Un’impresa difficile, soprattutto per gli apripista, quelli che a giochi fatti chiamiamo «profeti», figuriamoci se sei anche un sacerdote che ha vissuto transizioni storiche complesse, dalla Monarchia alla dittatura fascista fino alla Repubblica. E prete don Sturzo lo è stato sempre, per intero, fino all’ultimo dei suoi giorni. Un concetto risuonato spesso venerdì alla chiusura della fase diocesana della causa che potrebbe portarlo a essere proclamato beato. Prete «ubbidiente ma non sottomesso» come lo definì Jemolo, sacerdote al punto da sentire il dovere dell’impegno diretto, in un Sabato Santo, era il 1895, osservando la miseria di un quartiere romano di periferia. Perché la politica, se traduce il Vangelo in impegno, se è carità autentica, guarda in faccia le persone, scende per strada, si sporca le mani, chiama per nome l’ingiustizia e l’oppressione. Predica bene e vive allo stesso modo.

In Sturzo mai si pose il problema di un dualismo tra attività sociale e scelte private così come la ricerca del bene di tutti mai fu separato dall’esercizio delle virtù individuali. Ampliando il discorso, allargandolo, per il prete calatino etica e impegno pubblico non possono essere in contrasto, e non lo sono Vangelo e società umana. «La politica è per sé un bene - scriveva nel 1925 -, il far politica è, in genere, un atto di amore per la collettività: tante volte può essere anche un dovere per il cittadino».

Ecco la allora la sfida di un messaggio di salvezza che si cala nella storia concreta, capace di leggere e assecondare il cambiamento, che si rivolge a tutti gli uomini e a tutto l’uomo. Non solo un afflato spirituale, per quanto nobile, ma una chiave interpretativa del reale, una lente d’ingrandimento, una luce accesa sulle sfide sociali e sui mali del tempo, alcuni diventati poi triste eredità per i nostri giorni. Sturzo fu tra i primi a vedere i pericoli legati alla persuasività criminale della mafia, a denunciare i rischi della partitocrazia e dello statalismo, fu strenuo e appassionato difensore della Costituzione repubblicana.

Scelte che se allora gli valsero l’emarginazione e l’esilio oggi sono medaglie al merito della giustizia, del bene comune, della fraternità. Valori tuttavia non da enfatizzare come ideali astratti ma che, sull’esempio di Gesù, i cristiani hanno il compito, il dovere di realizzare nel quotidiano. Nella testimonianza di Sturzo, infatti, la fede non può essere separata dalla prassi ma la pervade e abbraccia, se assecondata, la feconda.

La missione del cattolico, allora, in qualsiasi ambito la si indirizzi, non può che essere testimonianza, riflesso, immagine del divino. Se manca, tutto si sporca e si rovina, dal servire si passa al servirsi, la logica del 'noi' facilmente diventa culto narcisistico di sé e dei propri interessi. IlVangelo che diventa vita, dunque, l’attenzione ai poveri come espressione della «fratellanza comune per la divina paternità», il legame inscindibile tra l’amore cristiano e la ricerca della giustizia. L’itinerario umano di don Sturzo si gioca su questi temi, secondo la logica di un sacerdote che non dimenticò mai, neanche per un attimo, di esserlo, che visse l’impegno sociale come chiamata e dovere, che considerò sempre l’attività politica «una conseguenza» di quella religiosa.

«Si può essere di partito diverso – scriveva nel 1942 –, di diverso sentire, anche sostenere le proprie tesi sul terreno politico ed economico, e pure 'amarsi cristianamente'». Un richiamo al rispetto e alla tolleranza che suonano come una sfida per questi nostri tempi sempre arrabbiati, di scontri che facilmente sfociano nell’insulto anche tra fratelli di fede. Una provocazione, un invito all’agire per i credenti che si domandano se impegnarsi. Una grazia per chi crede ancora che la politica sia amore, carità, anzi per dirla con Paolo VI «una delle forme più alte della carità».

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