L’immigrazione è una delle sfide più brucianti con cui si misura l’Europa, sempre più attanagliata dalle paure e sempre meno in grado di elaborare modelli capaci di costruire e organizzare convivenza. C’è chi dice che sia essenzialmente un problema di numeri: l’arrivo di una quota eccessiva di stranieri, unita alla loro maggiore prolificità rispetto agli standard occidentali, renderebbe ingovernabile la situazione. C’è chi denuncia un problema di compatibilità culturale di alcune componenti sostenendo ad esempio, come ha fatto recentemente il politologo Giovanni Sartori, che le comunità musulmane sarebbero per definizione ' non integrabili'. Sta di fatto che i modelli elaborati nei diversi Paesi per gestire la convivenza con i ' nuovi arrivati' – che col passare del tempo sono sempre meno ' nuovi' e sempre più stanziali – mostrano la corda. Lo dimostrano le difficoltà crescenti con cui si misurano la Gran Bretagna e l’Olanda, dove è in crisi il multiculturalismo fondato sull’illusione di far convivere comunità etniche o religiose sulla base delle rispettive regole e usanze, a scapito di valori condivisi. Coltivando l’utopia che ' diverso è bello', si è consentita la nascita di pezzi di società parallele e autoreferenziali ( come testimonia il reportage che pubblichiamo a pagina 3) caratterizzati da legami forti al loro interno ma fragili con ciò che sta fuori dalla comunità di appartenenza. Il multiculturalismo, al fondo, è figlio del relativismo culturale e giuridico, cioè del tentativo di dare legittimazione a ogni diversità che caratterizza le minoranze. Anche la Francia fa i conti con i limiti del suo modello di integrazione, ispirato all’universalismo e alla laïcité : da un lato le promesse di liberté- égalité- fraternité, figlie degli ideali repubblicani, si sono infrante contro una dura realtà fatta di insuccessi scolastici, disoccupazione ed emarginazione che ha colpito le seconde e terze generazioni degli immigrati; dall’altro la tendenza a relegare nell’ambito privato l’esperienza religiosa ( il contrario, cioè, di quella ' laicità positiva' che Sarkozy sta faticosamente cercando di promuovere) si è scontrata con l’onda lunga del fondamentalismo islamico. E in Italia, che fare? Quale strada intraprendere, facendo tesoro per quanto possibile della crisi dei modelli adottati negli altri Paesi europei? Siamo in una situazione molto peculiare: quasi 5 milioni di stranieri provenienti da più di 150 Paesi, raddoppiati negli ultimi 5 anni e con ingressi prossimi al mezzo milione all’anno nell’ultimo triennio, di tradizione cristiana per il 60%, musulmani per il 35%, molto più giovani della media italiana, 700mila sono compagni di banco dei nostri figli. Questo universo umano molto differenziato – che molti continuano a descrivere e a concepire invece come una massa indistinta e uniforme – vive in un Paese caratterizzato da una storia millenaria, spesso maltrattata dai suoi stessi eredi, che non è in alcun modo paragonabile a un libro con le pagine bianche dove tutto può essere azzerato in nome del rispetto di sopravvenute diversità. La nostra è terra ricca di tradizioni, legami, modi di concepire il lavoro, la famiglia, la convivenza. Tutto questo l’ha segnata in profondità. Tutto questo è l’Italia. Ed è questa l’Italia – lo ricordiamo mentre è ancora fresca l’eco della ' festa dei popoli' celebrata ieri in molte diocesi – che deve conoscere chi vuole metterci radici: imparandone la lingua, rispettandone le leggi, condividendo ciò che ne sta a fondamento, in un percorso che non è frutto di una formula ma comporta la fatica dell’integrazione. C’è un’identità italiana che nei secoli – non senza difficoltà – si è dimostrata capace di incontrare e accogliere la diversità, esigendo rispetto per il proprio patrimonio culturale e giuridico e manifestandone per quanti incontrava. Ogni vera identità non è mai autoreferenziale, ma consapevole che un ' io' autentico si costruisce solo nel rapporto con un ' tu', per poter arrivare a dire ' noi' in maniera non equivoca. E costruire così quella ' identità arricchita' che può rappresentare il modello italiano di convivenza, al quale tutti sono chiamati a portare il loro contributo, nella misura delle responsabilità di ciascuno: istituzioni, società civile, comunità straniere, singoli cittadini. Per fare in modo che la diffidenza e l’estraneità non diventino le lenti deformanti con cui guardiamo coloro che in molti casi sono diventati i nostri nuovi vicini di casa.