Dopo i drammatici scontri a Capitol Hill del 6 gennaio e poco prima della cerimonia di insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca programmato per il 20 gennaio, l’America si appresta a celebrare la festività che fa memoria della nascita di Martin Luther King, avvenuta il 15 gennaio del 1929. Il King’s day quest’anno cade il 18 gennaio e fu istituito dal presidente Reagan nel 1983: una mossa azzardata e paradossale dal momento che la reaganomics, con i suoi tagli allo Stato sociale e al welfare, fu una politica economica in evidente contrasto con l’azione di King che, soprattutto negli ultimi anni, aveva rivolto una critica sempre più radicale alle ingiustizie sociali nel «Paese più ricco del mondo». Dedicandogli una festività nazionale, la Casa Bianca pensò tuttavia di onorare il debito nei confronti di un protagonista della storia americana trasformandolo in 'icona' - il più possibile muta e innocua - della nonviolenza e della convivenza multietnica. King fu questo, certamente, ma anche altro che il 'santino' rassicurante così spesso pubblicizzato non riesce a esprimere.
Martin Luther King fu ucciso a Memphis dove si era recato insieme ad alcuni dei suoi collaboratori più stretti: tra gli altri, Ralph Abernathy, il compagno di tutte le battaglie, a iniziare da quella per la desegregazione degli autobus di Montgomery; Jim Lawson, il pastore metodista che per la sua esperienza in India lo aveva introdotto alle tecniche di azione nonviolenta; Jesse Jackson, il giovane attivista che a Chicago aveva coordinato con successo una campagna di boicottaggio dei negozi che discriminavano i commessi afroamericani retribuiti con paghe più basse di quelle riconosciute ai bianchi. Oltre a King, quindi, tre pastori noti e riconosciuti in tutto il Paese, tre leader molto autorevoli del Civil Rights Movement, convenuti a Memphis per la mobilitazione di un centinaio di netturbini che denunciavano condizioni di lavoro insicure, paghe inferiori al minimo sindacale e atteggiamenti discriminatori da parte dell’amministrazione comunale. Fatti gravi, certo, ma non al punto da mobilitare il vertice della Southern Christian Leadership Conference, l’organizzazione fondata da King. Eppure quella presenza si collocava perfettamente nella strategia che King adottava in quei mesi: battere il Paese contea per contea per organizzare un movimento dal basso, composto da bianchi e neri, che si mobilitasse contro la povertà e l’ingiustizia sociale in una fase dello sviluppo americano in cui si allargava drammaticamente il divario tra i ricchi e i meno abbienti.
L’analisi si spingeva oltre e individuava una causa specifica di quella povertà che, oltre che l’assoluta maggioranza della comunità afroamericana, colpiva anche un numero sempre più alto di bianchi: gli investimenti per la guerra in Vietnam ormai entrata in una progressiva escalation. Militarismo, materialismo e razzismo – era il ragionamento e il discorso pubblico del reverendo – componevano una triade violenta e interconnessa che provocava una malattia morale che colpiva il cuore dell’America.
Le indagini sull’omicidio di King condussero a James Earl Ray, uno sbandato con vari precedenti penali che non ha mai ammesso la sua colpevolezza, per altro messa in dubbio anche dai figli del reverendo nero. E a oltre cinquant’anni da quell’omicidio, è doveroso chiedersi non solo 'chi' ma anche 'che cosa' abbia determinato la sua condanna a morte. La ricostruzione degli ultimi anni dell’attività di King delinea una risposta abbastanza precisa: la denuncia di un sistema militare e sociale che, oltre che razzismo, produceva nuove povertà. Mentre gridava questa verità e combatteva la sua ultima battaglia morale e politica, il reverendo acclamato sulle prime pagine dei giornali, celebrato con il Premio Nobel per la pace nel 1964, rispettato (e temuto) dalla Casa Bianca, subì un progressivo isolamento politico e umano. Ampi settori liberal, pronti a seguirlo nelle lotte per i diritti civili, non capivano quella che a loro appariva una radicalizzazione politica che per giunta avveniva in un momento in cui lo sforzo militare richiamava all’unità nel nome del patriottismo.
Eppure, proprio in quel drammatico frangente, King predicava la « beloved community », l’importanza di una comunità riconciliata nel nome dell’amore, un «fronte delle coscienze» composto da bianchi e neri che, insieme, lottassero per riconquistare la dimensione morale dell’America. Un sogno che, di fronte alle immagini dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, rivela una profonda frattura, un incubo dal quale l’America faticherà a liberarsi.
Politologo, Università di Roma La Sapienza e autore di "Martin Luther King. Una storia americana" (Laterza)