«Non abbiamo un piano B perché non abbiamo un pianeta B, perciò l’unica cosa da fare è unire le nostre forze per un impegno comune», recitava il documento di presentazione di One Planet Summit, l’incontro che si è chiuso ieri a Parigi, ancora una volta sui cambiamenti climatici. Due giornate tutte dedicate ai soldi, alle strategie per finanziare la gigantesca rivoluzione tecnologica che serve per passare da un’economia basata sui combustibili fossili a un’economia decarbonizzata, vale a dire a zero emissioni di anidride carbonica.
Quanto serva veramente nessuno lo sa, anche se qualcuno ha provato ad azzardare delle stime. Fra questi l’Iea, l’Agenzia Internazionale dell’Energia, secondo la quale per avere l’80% di probabilità di mantenere l’aumento della temperatura terrestre al di sotto dei due gradi centigradi servono investimenti per 140mila miliardi di dollari, da qui al 2050. Una somma equivalente a tutta la ricchezza prodotta in due anni a livello mondiale.
E ancora non basta perché la stima non tiene conto della riparazione dei danni provocati dai cambiamenti climatici e dei denari necessari per proteggersi da fenomeni come l’innalzamento dei mari, la desertificazione, l’espandersi di vecchie e nuove malattie dovute all’alterazione degli equilibri ecologici. Problemi che riguardano soprattutto i Paesi più poveri per importi che secondo la Banca Mondiale richiedono fra i 70 e i 100 miliardi all’anno da qui al 2050. Stima benevola dal momento che l’Agenzia per l’ambiente delle Nazioni Unite calcola un fabbisogno fra i 140 e i 300 miliardi all’anno fino al 2030 e fra i 280 e 500 miliardi annui nel ventennio successivo. Conscio dello sforzo immane da compiere, il presidente Macron, che ha fortemente voluto l’incontro e ha avvertito che «stiamo perdendo la battaglia sul clima», ha convocato non solo i governi, ma anche le imprese per chiedere pure a loro di fare la propria parte. Naturalmente in un rapporto alla pari, di discussione cortese fra gentiluomini che non giungono mai a conclusioni vincolanti, ma lasciano sempre la libertà ad ognuno di fare ciò che vuole, secondo i dettami del laissezfaire. Vista la drammaticità del momento, però, si pongono due domande. La prima: se possiamo relegare una sfida tanto importante al mero senso di responsabilità delle imprese o se i governi non debbano utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per ottenere dalle imprese i cambiamenti che la gravità della situazione impone.
Dunque non solo la leva fiscale e creditizia, per orientare le scelte, ma anche la legge per imporre obblighi e divieti. Proposte inaccettabili per i sostenitori del neoliberismo, ma se l’umanità si trova sull’orlo del baratro è perché abbiamo lasciato campo libero a una concezione economica accecata dall’ideologia della crescita e del tornaconto personale. Il capitalismo ha dimostrato di non avere alcuna attenzione per il bene comune, per cui bisogna aiutarlo ad andare in questa direzione. Non farlo ci rende complici dei suoi misfatti e inadempienze.
E mentre rimane aperta la discussione sul come gestire la transizione ecologica, un’altra domanda si affaccia alla mente: se sia sufficiente concentrarsi sul cambio tecnologico o se non si debba attivare anche la strategia della riduzione considerato che si produce anidride carbonica non solo quando andiamo in automobile, ci scaldiamo o accendiamo una lampadina, ma anche quando consumiamo qualsiasi altra cosa, alimenti compresi. L’associazione Grain ci informa che fra il 44 e il 57% di tutti i gas serra emessi a livello mondiale sono connessi al sistema alimentare globale.
Del resto la crisi del pianeta non è rappresentata solo dall’eccesso di anidride carbonica, ma anche dal calo di acqua, legname, minerali, un depauperamento che grida vendetta agli occhi di quella parte di umanità che non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana. Tre miliardi di persone hanno bisogno di mangiare di più, vestirsi di più, alloggiare meglio, curarsi di più, ma potranno farlo solo se noi opulenti accettiamo di fare un passo indietro perché c’è competizione per le risorse scarse. Ecco perché l’efficienza da sola non basta. Contemporaneamente va battuta anche la strada della sufficienza per garantirci un futuro equo, sostenibile e pacifico. Ridurre ci spaventa, ma è arrivato il tempo di chiederci cosa ci rende veramente felici. E’ opinione diffusa che la felicità è una variabile dipendente della ricchezza, ma varie ricerche hanno mostrato che solo fino ad un certo punto ricchezza e felicità procedono di pari passo.
Dopo di che la ricchezza cresce, ma la felicità rimane piatta, addirittura decresce. Semplicemente perché a questo mondo tutto ha un prezzo. E il prezzo di una vita tutta tesa al guadagno è la mancanza di tempo per le relazioni umane, affettive, sociali. Per non parlare del senso di insicurezza che si crea quando le disparità si fanno acute. Quando le città sono popolate da chi ha troppo e chi troppo poco, inevitabilmente i benestanti si fanno assalire dalla paura di essere derubati. Come difesa ci chiudiamo dietro sbarre e cancellate, trasformiamo le nostre case in prigioni dorate che ci isolano dal resto del mondo e ci tolgono la gioia di vivere. Alla fine scopriamo che un diverso stile di vita meno orientato all’avere, più concentrato sull’essere, prima che per il pianeta serve per la nostra serenità.