Ripartire. Economisti, industriali, sindacalisti, banchieri e volenterosi formulano programmi, piani, strategie di ripartenza, che tuttavia si limitano a richiedere ulteriori iniezioni di liquidità “a parità di struttura produttiva”, come se il sistema industriale di un Paese fosse un televisore che si accende e si spegne. E invece questa pandemia globale porterà con sé una profonda riorganizzazione delle produzioni e dei mercati ed è proprio nei giorni della riapertura dei cancelli delle fabbriche che le imprese si stanno misurando con lo sforzo di offrire nuovi prodotti nel nuovo mercato lacerato dalla crisi. E c’è più che mai necessità di interrogarsi su come riorganizzare la produzione, non solo quella dentro alle proprie mura, ma anche come ridisegnare quelle catene di subfornitura composte dalle tante piccole e medie aziende che realizzano parti e componenti fondamentali per la competitività del nostro Paese e la sua complementarità nel sistema europeo.
La sfida è rappresentata dalla modalità con cui rivolgerci a mercati internazionali, che sono diventati improvvisamente lontani, ma che in questi anni hanno costituito per la maggior parte delle imprese italiane l’unico traino per quella scarsa crescita che ci ha portato fin qui. Nei giorni di segregazione abbiamo tutti imparato modi di lavoro a distanza, finora ritenuti marginali, o al massimo strumenti di welfare aziendale. Abbiamo imparato che è davvero possibile lavorare da casa – e anzi bisognerà dare regole per evitare di essere sempre incatenati al nostro computer – ma abbiamo anche imparato che molta parte delle produzioni fisiche possono essere realizzate da robot e macchine governate da lontano, robot e macchine automatiche di cui l’Italia è leader a livello mondiale e che in questi ultimi anni sono diventate la prima voce delle nostre esportazioni.
Abbiamo imparato che forse non c’è bisogno che un prodotto – dalle mascherine al paracetamolo per i farmaci per abbassare la febbre – venga realizzato in Cina o in India con il rischio che le forniture vengano bloccate alle frontiere: è possibile tornate a produrre in Europa beni che erano stati delocalizzati per risparmiare qualche centesimo, ma che oggi sono a rischio, potendo contare su un’industria farmaceutica nazionale che ha saputo in questi anni conquistare rispetto e posizioni a livello mondiale. D’altra parte nessuno degli strumenti che sono sul nostro tavolo e che ci permettono di comunicare – dai telefonini ai computer, alle piattaforme con cui stiamo con gioia di neofiti sempre più in perpetuo collegamento video fra noi – è realizzato in Italia e nemmeno in Europa e quindi anche qui dobbiamo ritrovare occasioni di sviluppo.
Del resto mai come oggi vediamo quanto sia necessario tornare a considerare i beni comuni – la salute, l’ambiente, la sicurezza – occasioni per ripensare tutta la nostra economia, ritrovando anche un ruolo per lo Stato che non deve essere di surrogazione delle imprese ma di garanzia dei cittadini. Ed è su questi beni che deve orientarsi anche l’intervento europeo, che non può perdersi nelle vaghe ingegnerie della finanza, di cui tutti sembrano essere diventati espertissimi. La presidente Ursula von der Leyen si era presentata con un programma chiamato pomposamente Green New Deal, che pure sembra essersi disperso nei giorni della pandemia e che invece deve essere la base di un intervento comune di conversione del sistema produttivo e di salvaguardia dell’intero ambiente europeo, da finanziare – ebbene sì – con i famosi Eurobond. E c’è dell’altro, e ci riguarda direttamente. Perché in Italia abbiamo centri di supercalcolo, sia pubblici sia privati, che sono i più potenti oggi in Europa e rappresentano l’infrastruttura necessaria per avviare questo nuovo sviluppo, ma occorre che in breve tempo sappiamo collegarli e metterli a disposizione delle imprese che debbono rispondere ai nuovi bisogni della nostra popolazione e dei mercati internazionali.
Una strategia di uscita richiede allora non solo soluzioni finanziarie, ma strategie di produzione e lavoro, che vedano come aree di sviluppo anche quei beni comuni come salute e ambiente, che richiedono per divenire fattori di crescita nuove tecnologie e nuove competenze, ma anche un nuovo rigore morale che sia di collante al Paese. Si fa spesso riferimento al Dopoguerra, ma quelli erano anni di forti spinte ideali e di altrettanto forti impegni civili, riuniti in una collettiva scoperta della democrazia, beni comuni questi di cui oggi c’è quantomai bisogno.