Non si allentano le tensioni sul futuro della disciplina della prescrizione penale, cioè di quell’istituto giuridico grazie al quale lo scorrere del tempo può avere effetti negativi sulla punibilità di un reato determinandone a un certo punto l’estinzione. Sanno d’altronde di rimedi di ripiego le alternative che si contendono attualmente il campo: da quella di apportare modifiche marginali alla regola introdotta un anno fa dalla cosiddetta "legge Spazzacorrotti" – e di lasciare perciò inalterato il drastico stop alla prescrizione in appello e in cassazione quando la sentenza impugnata sia di condanna – a quella di limitarsi a cancellare tale regola per tornare, sic et simpliciter, al quadro normativo anteriore, risultante da un accumulo di riforme e controriforme, per lo più consistenti in una schizofrenica alternanza, generalmente dettata da obiettivi contingenti, tra riduzioni e allungamenti di termini, come se si giocasse su un pallottoliere.
Nulla, dunque, per soluzioni più radicalmente innovative, ma immuni dall’estremismo della "Spazzacorrotti", come quella di adattare anche alla dinamica del grado di appello una regola che la Cassazione ha da tempo ritagliato in via interpretativa sulla norma che definisce inammissibili – e dunque inutilmente proposti – i ricorsi manifestamente infondati (per tal via, infatti, la Corte era già riuscita a frustrare i tentativi difensivi, reali o potenziali, di prolungare strumentalmente i processi fino all’ultima istanza soltanto per far guadagnare agli assistiti la prescrizione, che quell’interpretazione ha reso inapplicabile). E senza echi, altresì, la proposta di far decorrere i termini della prescrizione processuale, almeno per i reati più facilmente occultabili, non (come ora) dalla data della loro commissione, ma dal giorno in cui la notitia criminis perviene agli uffici della polizia o del pubblico ministero.
Viene invece rilanciato, in nuova versione, il progetto di interventi di carattere strutturale e organizzativo per ridurre i tempi processuali: ottima cosa, di per sé prima ancora che per il rapporto con il problema della prescrizione; ma non dimentichiamo che si è lasciato passare più di un anno dal primo annuncio di tale riforma, allora definita addirittura «epocale», senza che vi sia stato dato avvio praticamente: consigliabile, perciò, una certa prudenza, anche perché taluni dei dettagli, vecchi e nuovi, fatti circolare appaiono fortemente contestati da più parti, per un verso o per l’altro.
Tornando alla prescrizione, non si può tacere, d’altronde, preoccupazione per come il confronto tra le forze politiche (e anche tra molti paladini "esterni" delle varie schiere) si sia sin qui sviluppato, e senza grosse distinzioni tra la stagione del Conte I e quella del Conte II. Prevalenti, un clima generale e atteggiamenti tutt’altro che consoni al tipo dei problemi da trattare, che dovrebbero indurre a tenere lontani, e non solo a parole, interessi e obiettivi strettamente di parte. La civiltà giuridica e lo Stato di diritto, non meno di più specifici princìpi emergenti, esplicitamente o implicitamente, dal testo stesso della Costituzione (efficienza della funzione di giustizia, diritto di difesa, presunzione d’innocenza, ragionevole durata del processo), sono stati ridotti ad armi di battaglie senza esclusioni di colpi e in una lettura spesso unilaterale, senza curarsi dei rispettivi limiti intrinseci e delle esigenze di reciproca armonizzazione.
Inoltre, è divenuta addirittura assorbente la logica di un cui prodest variamente declinato. Orgogli identitari, cambiamenti più o meno repentini di opinione, manovre tattiche in funzione esclusiva o dominante del loro peso sui rapporti tra gli schieramenti politici…
E questo, in desolante sintonia con atteggiamenti emersi in relazione ad altre vicende a loro volta sul proscenio in questi giorni e non meno capaci di dare al cittadino comune l’idea di come i suoi rappresentanti si occupino di questioni di giustizia penale.
Pensiamo a come si è sviluppata la procedura parlamentare relativa alla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex-ministro Salvini per il 'caso Gregoretti'. Anche al netto del prevedibile combinarsi di vittimismo e di baldanza da 'poi vi aggiusto io', da parte del protagonista (nonché dalle ormai abituali intemperanze d’aula, purtroppo non sempre solo verbali), è stato tutto un susseguirsi di giravolte strategiche e tattiche in un generale cedimento a pure logiche di schieramento, con l’acme del ridicolo raggiunta nella pantomima delle contrapposte tesi sulla data dell’esame da parte della commissione competente. Né – si parva licet – deve consolare una certa assonanza con il Trump messo in stato d’accusa dal voto dei suoi oppositori politici statunitensi, prevalenti alla Camera dei rappresentanti, e uscito indenne dall’impeachment solo grazie ai suoi compagni di partito, in maggioranza al Senato. Semmai dovrebbe far capire che hanno fatto il loro tempo, di qua e di là dall’Atlantico, meccanismi che, sia pure per bilanciare, com’è giusto, indebite invasioni di campo dei giudici, affidano ruoli determinanti, in campi come questi, a organi strettamente politici, e non a soggetti ulteriormente 'terzi', quale, da noi, potrebbe essere un collegio costituito all’interno della Corte costituzionale o da suoi ex-membri.