La sera del 19 marzo di quindici anni fa moriva Marco Biagi. Ucciso da brigatisti rossi mentre faceva rientro nella propria abitazione, nel centro storico di Bologna, a pochi passi dalle Due Torri. Nel suo ruolo di consulente del Ministero del Lavoro stava lavorando a un progetto di modernizzazione di quello che definiva il peggior "mercato del lavoro" in Europa. Lo preoccupavano un tasso di disoccupazione stabilmente in doppia cifra e nuove forme di sfruttamento, ma anche la condanna alla inattività per tanti giovani e per le donne, soprattutto nel Mezzogiorno del Paese.
Fu tra i primi a comprendere, in Italia, la grande trasformazione del lavoro innescata da una sempre più spinta innovazione tecnologica nei processi produttivi e dagli imponenti cambiamenti demografici e ambientali in atto nella società.
Il suo era un progetto di inclusione sociale. Si batteva per il superamento dei marcati dualismi del nostro "mercato del lavoro", vere e proprie barriere allo sviluppo e all’accesso al lavoro regolare per i gruppi più deboli della società. Non predicava una flessibilità fine a se stessa e tanto meno la deregolazione. L’articolo 18 non è mai stata una sua fissazione. «Parliamo dei veri problemi del lavoro», ci diceva; parliamo cioè dei percorsi per l’occupabilità delle persone e delle esigenze di adattabilità delle imprese ai nuovi scenari imposti della globalizzazione. Erano questi i terreni su cui si cimentava nel suo lavoro quotidiano e nel tentativo di costruire - nel suo prezioso ruolo di raccordo tra istituzioni, politica e rappresentanza del lavoro e delle imprese - uno Statuto giuridico dei nuovi lavori.
Il suo pensiero e le sue proposte vennero tuttavia strumentalizzate e mistificate, arrivando a farne agli occhi della opinione pubblica un artefice della precarietà. Per questo Biagi divenne un obiettivo da colpire, secondo la bieca logica del "colpirne uno per educarne altri cento". È anche per questo che si è molto discusso, in questi lunghi quindici anni, della sua riforma del lavoro. Gli esiti del confronto sulle idee a cui ha cercato di dare corpo e gambe paiono ancora lontani da un approdo certo e condiviso. Neppure le evidenze empiriche, che mostrano la bontà di molte sue intuizioni, sono servite a superare un radicato pregiudizio sulla legge che ispirò e contribuì in modo decisivo a strutturare. Il nome di Marco Biagi ancora oggi divide, a esclusione di quanti, magari dopo averlo isolato e osteggiato in vita, sono adesso impegnati nelle numerose commemorazioni formali, nel nobile tentativo di riabilitarne ex post il ruolo di servitore dello Stato e delle istituzioni, cancellando tuttavia la storia fino al punto di negargli la paternità di quella che, con gelido distacco, viene ancora oggi chiamata "la legge 30".
In questo giorno di ricordo, a noi preme sottolineare che tutto questo è avvenuto anche perché i molti che, da una parte o dall’altra dell’arena politica, hanno usato in modo strumentale il suo nome, erigendolo a bandiera da innalzare o calpestare, hanno poi finito con l’oscurarne lo straordinario impegno civile e progettuale. Un impegno vissuto con coraggio e forte senso di responsabilità, ma anche con entusiasmo e una passione quasi giovanile, sempre al servizio dei più deboli e in una ottica di inclusione sociale. Anche per questo ci piace ricordarlo non solo nel suo ruolo pubblico di servitore delle istituzioni, ma anche e soprattutto in quello di educatore. Genitore affettuoso e presente, brutalmente strappato agli affetti nel giorno della festa del papà. Colpevole di sognare un mondo migliore e, cosa non comune tra gli intellettuali, di impegnarsi attivamente nel confronto con le parti sociali per raggiungere questo obiettivo. Tecnico del lavoro e tuttavia fermamente convinto che i complessi temi del lavoro non potessero rimanere rinchiusi in un arido terreno di confronto e scontro politico fatto di formalismi e cavilli giuridici.
Marco Biagi era molto lontano dalla classica immagine del consulente del Principe, chiuso nelle segrete stanze del Palazzo, intento a progettare e discutere di cose che poco conosce, perché lontano dalla vita di tutti i giorni. Questa straordinaria eredità umana e intellettuale non è morta con lui. Essa è stata pazientemente coltivata, in anni difficili, dai tanti giovani che si sono formati alla sua Scuola e col suo metodo, quello del diritto delle relazioni industriali. Nel mio lungo periodo di apprendistato nella 'bottega artigiana' di Marco Biagi e soprattutto ora, in questi ultimi anni, a ruoli invertiti, nella formazione dei tanti giovani apprendisti della nostra Scuola posso testimoniare che i riformisti del lavoro non sono eroi e tantomeno ambiscono a targhe e medaglie, specie se alla memoria. Ma non sono neppure una razza maledetta. Come ebbe a scrivere il Maestro di Marco, Federico Mancini, nella introduzione al saggio 'Terroristi e riformisti' del 1981, il riformista «non è una anima bella e non ne mena scandalo ».
È idealista, ma non ingenuo. Si muove lungo l’orizzonte delle riforme possibili. Non cerca l’utopia. Spesso anzi si accontenta di ogni contributo, anche piccolo, che possa rendere la nostra società un poco più decente. Per onorare la sua memoria e dare senso al suo sacrificio dovremmo umilmente ripartire da qui, dalla ricerca condivisa del bene comune, invece di riavviare, come sta accadendo in questi giorni, l’ennesimo scontro tra fazioni che poco o nulla ha a che fare con un serio progetto di sviluppo economico che rimetta al centro la persona che vive e lavora, con i suoi bisogni e le sue vocazioni, i suoi talenti e la sua dignità.