Aleppo deve vivere. Il titolo che "Avvenire" ha dato alla campagna di informazione e sensibilizzazione sulla sorte della grande città della Siria, lacerata nella lotta tra l’esercito del dittatore Bashar al-Assad, le milizie dello Stato islamico e i reparti degli altri gruppi che si oppongono al regime alauita di Damasco, resta alla fin fine la cosa più sicura che abbiamo. Perché noi sappiamo, lo sappiamo per certo, che se la cosmopolita Aleppo dovesse morire per sempre, qualcosa morirebbe non solo per tutti ma in tutti.Nella regione di Aleppo, come hanno già ricordato in molti, la presenza e l’attività dell’uomo risalgono a oltre settemila anni fa e hanno lasciato tracce imponenti e preziose. Un patrimonio d’arte e cultura massacrato dalla furia della guerra ma anche dal calcolo degli uomini: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha vietato qualunque transazione di oggetti dalla Siria proprio perché il traffico dei reperti a favore dei collezionisti americani ed europei garantisce ai contrabbandieri guadagni per quasi tre miliardi di euro l’anno, soldi destinati in parte non piccola ai tagliagole dello Stato islamico. E poi c’è la strage degli innocenti, il calvario di una città che fino al 19 luglio 2012, quando cominciò quella che ancora viene chiamata «battaglia di Aleppo», quasi un anno dopo l’inizio della guerra civile, era la vera capitale economica e culturale della Siria. Dei quattro milioni di abitanti ne sono rimasti forse due, costretti di ora in ora a una lotta per la sopravvivenza che fa i conti non solo con le armi impugnate dai fanatici ma anche con la fame, le malattie, l’angoscia senza fine.Ma questo è ciò che muore per tutti noi man mano che si prolunga l’agonia della città. Se però Aleppo dovesse precipitare definitivamente, andrebbe a fondo con lei una parte di noi. Quella parte che ancora s’illude di aver lasciato alle spalle certe guerre e certe sofferenze e di aver trovato gli strumenti più efficaci per comporre le crisi e fermare le inutili stragi. Tante volte abbiamo ricordato con orgoglio che l’Europa di oggi mette fianco a fianco Paesi che si sono a lungo combattuti in passato. Ma che pena quest’Europa che non riesce a trasmettere ad altri la propria esperienza, che non sa tendere una mano concreta ai siriani intrappolati nel conflitto.Prima di essere travolta da questa guerra, Aleppo era una delle città più ricche del Medio Oriente per la varietà delle etnie e delle fedi che la animavano. In una popolazione a maggioranza sunnita, oltre 300 mila cristiani di dieci confessioni diverse ne facevano la terza maggiore città cristiana del mondo arabo dopo Il Cairo in Egitto e Beirut in Libano. E intorno armeni, circassi, arabi, curdi, e poi drusi e ismailiti pian piano arrivati dalle province intorno. Di questo originale equilibrio ora non resta nulla, come non resta nulla della Grande Moschea o del bazar medievale.Dobbiamo rimpiangere il regime autoritario degli Assad, che comunque garantiva quell’equilibrio? Certo che no, ma comunque non si tratta di questo. Dobbiamo piuttosto riflettere che cosa ha prodotto la potenza economica e militare dell’Occidente combinata con la sua tendenza a trasferire ovunque il proprio modello politico e sociale. Succede che abbiamo tutta la forza e l’esperienza necessarie per aprire certe crisi ma nulla o quasi di ciò che serve per chiuderle e comporle. Sappiamo smontare, ma non rimontare. E continuiamo a farlo - continuano a farlo alcune potenze occidentali e a lasciarlo fare altre - in una regione, il Medio Oriente, dove certi assetti si sono formati e radicati nei millenni, tra popolazioni diversissime, tra fedi che hanno imparato (alcune pagando un carissimo prezzo) a convivere non grazie a dichiarazioni o trattati, ma in base alla dura esperienza quotidiana della strada. Forse non di prima mano in Siria, ma tutto intorno sì.Aleppo quindi deve vivere. Aleppo, come chiede l’appello lanciato nel 2014 da Andrea Riccardi e dalla Comunità di Sant’Egidio, dev’essere salvata. Per i siriani in primo luogo. Ma anche per far vivere e salvare quella parte di noi ancora convinta che il nostro mondo abbia il diritto-dovere di aiutare gli altri popoli a liberarsi delle dittature senza finire in mano ai tagliagole e in ostaggio di potenti giocatori senza scrupoli.