La Supercoppa a Gedda: partita d'affari e molto di più
sabato 5 gennaio 2019

Poteva bastare che Immobile, Jorginho o Bonucci spedissero dentro il sacco uno degli innumerevoli cross nell’area svedese durante la funesta serata di San Siro che sancì la nostra umiliante eliminazione dal Mondiale russo, e saremmo andati a giocarcela. Magari, come altre volte, avremmo pure potuto toglierci qualche soddisfazione: non è forse vero che diamo il meglio quando siamo alle corde? Forse però non vale più neppure questo autoassolutorio assioma nazionale. Non solo il torneo in Russia l’abbiamo seguito da distaccati spettatori, ma la pressione del disastro sportivo non pare aver indotto il nostro calcio ad alcuna seria riflessione su se stesso. È poi bastato qualche dribbling riuscito nelle ultime partite della Nazionale di Mancini, e l’oblìo del tifoso si è steso sui peccati del passato senza che sia stata scontata alcuna penitenza, non dove si decidono strategie e progetti, almeno. E non parliamo solo del valzer andato in scena sia in Federazione sia in Lega, tra commissari, presidenti e cordate.

La vicenda della finale di Supercoppa italiana, che il 16 gennaio vedrà incrociarsi Juventus e Milan sul prato del King Abdullah International Stadium di Gedda, fa parte a pieno titolo di quella che per il rilievo sociale ed economico del fenomeno calcistico non è una semplice commedia per appassionati del genere ma un evento con risvolti politici, economici ed etici di prim’ordine.

Quando mesi fa la Lega Calcio – l’organo assembleare ed esecutivo delle società – scelse la città saudita per l’assegnazione del terzo trofeo nazionale dopo scudetto e Coppa Italia mise a segno un’operazione del valore di 22,5 milioni di euro a fronte dell’impegno di giocare non la sola partita 2019 ma tre finali nell’arco di 5 anni. Il calcio italiano mostra dunque la sua perdurante appetibilità, riuscendo a vendere a una cifra enorme uno degli eventi chiave della stagione su mercati affamati di sport (occidentale) di qualità e ottiene la benzina per far restare competitiva una macchina da intrattenimento seconda nel suo genere solo al calcio inglese e a quello spagnolo.

Malgrado l’onta russa, il football tricolore è un prodotto che attira i consumatori globali dalla Cina alla Penisola arabica, al pari di Venezia, del Colosseo o del Parmigiano. E se il mercato mostra tanto interesse, perché negargli di dettare le condizioni? Così è accaduto che chi ha firmato il contratto con gli emissari arabi abbia deciso di chiudere gli occhi su tutto il resto: diritti umani, status delle donne, repressione del dissenso, acquisto di armi tale da fare del Paese – peraltro, pedina chiave degli equilibri geopolitici nell’area – il primo acquirente mondiale, snodo di altre e assai meno innocenti produzioni in terra italiana, come questo giornale ha più volte documentato. In fondo – ci viene detto – è solo una partita di calcio, che c’entra tutto il resto?

Obiezione tanto ingenua quanto risibile, specie se sollevata da chi ha legato mani e piedi l’industria del pallone a quella dell’azzardo, con sponsorizzazioni dominanti a garantire ossigeno (quanto sporco e pericoloso i lettori di 'Avvenire' lo sanno meglio di chiunque altro) a società e Federazione. Chi ha stretto un patto di sangue con i professionisti di scommesse e videopoker è in grado di dar lezioni sull’etica del business? Il calcio – questo loro calcio – non si risolve nei novanta minuti di passione e divertimento sugli spalti o davanti alla tv, ma muove finanza e diplomazia, politica, diritto e consumi. Soprattutto, muove, orienta e forma (o silenzia) le coscienze di chi guarda il rettangolo di gioco ma è invitato a non sollevare lo sguardo sulle tribune, o fuori dallo stadio. Divertitevi, e non fate troppe domande. Ma è proprio quello che l’opinione pubblica deve fare: domande.

Eccoci allora con la nostra: se la credibilità del calcio italiano non passa solo per i risultati ma anche per il messaggio che è capace di inviare, perché non si sceglie di usare il suo valore per un’operazione simbolica, come portare la Supercoppa nello stadio di un Paese uscito dalla guerra, in una terra che sia cerniera di pace, in città dove il pallone fa sognare i più poveri, o in terra di emigrazione, straniera o italiana? Chi governa il calcio decida: è l’ora del riscatto, del ridicolo o del cinismo?

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