Degli uomini che reggono la bara di Paolo Rossi fuori dal Duomo di Vicenza, sopra la mascherina risaltano gli occhi: pensosi, dolenti, occhi di uomini che ricordano giorni d’oro, e tracciano bilanci. Sotto ai capelli grigi non sono ancora anziani: ma Marco Tardelli, Antonio Cabrini e gli altri sanno di portarsi via, con l’amico, il motore di un sogno che 38 anni fa incantò l’Italia intera.
Quella notte dell’11 luglio ’82 a Milano faceva molto caldo. Da Brera a Quarto Oggiaro con le sue fila di palazzoni uguali, la città viveva coagulata attorno alle tv. E percorrendola in auto, dalle finestre spalancate un’unica voce ne veniva: silenzi tesi quando l’avversario si avvicinava alla nostra porta, e poi un crescente rumoreggiare di tensione, mentre il telecronista Nando Martellini scandiva i nomi dei nostri all’attacco: Collovati, Altobelli, Rossi, Rossi… Ai gol, i boati colmavano le strade vuote come colpi di cannone: e chi girava per Milano mentre calava il buio aveva la sensazione che, almeno per quella sera, fossimo uniti da qualcosa. Chi aveva almeno sette o otto anni è stato, l’11 luglio ’82, testimone di un sogno: per qualche ora, da Roma a Napoli a Bologna, gli italiani erano felici, insieme.
I compagni di squadra portano la bara di Paolo Rossi - Ansa
«Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!». La voce ebbra d’entusiasmo di Nando Martellini diede il via a un’indimenticabile festa, fino all’alba. Per chi aveva vent’anni, forse quella notte sta nei ricordi come l’essenza della propria stessa giovinezza. Quei ragazzi, e anche quei campioni, sono oggi sulla sessantina. Non vecchi; ma nell’età in cui l’avvenire, che a vent’anni pare sterminato, è sostanzialmente alle spalle. C’è anche questo nello sguardo dei compagni che reggono la bara, e nello sguardo nostro. Come luccicava la Coppa brandita da Rossi allo stadio Bernabeu di Madrid, com’erano vigorose le sue braccia. E tutti quanti i campioni dell’82, quant’erano forti, e che occhi: gli occhi di chi aveva conquistato il mondo. Soltanto il sogno di una notte di mezza estate? Nella mattina grigia inverno, nelle rughe sui volti al funerale si potrebbe pensarlo. Ma dall’altare don Pierangelo Ruaro ricorda le sue parole: «Il momento più bello della Finale è stata la Finale della Finale. Stavamo facendo il giro del campo con la coppa in mano e ad un certo punto mi prendono i crampi e mi siedo su un cartellone pubblicitario; mi giro e vedo sugli spalti la gente che si abbraccia e penso: la gioia di tutte queste persone è anche merito mio».
«Il momento più bello, è la gioia di aver fatto felici gli altri», dice il sacerdote. Per una notte almeno, quei ragazzi dell’82 fecero felice l’Italia. Nelle piazze gremite dopo la partita pareva che gente del tutto estranea condividesse qualcosa – e quasi, forse, si volesse del bene. Miracolo a Milano, a Roma, a Torino, ma anche nei più piccoli paesi. Breve, effimero miracolo, se volete. E tuttavia, una notte di gioia condivisa, che dono.
Negli occhi mesti dei campioni del mondo ieri, come in quelli di noi, che quel giorno c’eravamo, la tristezza non cancelli il bagliore della coppa, le corse in auto con le bandiere della Nazionale, gli abbracci fra sconosciuti. E in quel ricordo si fa più commovente il passo lento, oggi a Vicenza, dei giocatori che saettavano agili nello stadio Bernabeu. Insieme nel dolore, uniti, ancora, adesso che il fischio finale dell’arbitro non è più così lontano. Mentre dalle strade la gente a Vicenza gridava in coro: «Paolo, Paolo!». Come bambini che chiamano un compagno, che tardi a scendere a giocare in cortile. Quasi che “quel” ragazzo, ragazzo rimanesse, nella nostra memoria, per sempre.