Finalmente, dopo qualche anno, terminata l’ubriacatura ideologica sostenuta da certo giornalismo superficiale e certa sociologia acritica, la tanto acclamata sharing economy sta mostrando il suo vero volto: nulla di più di un nuovo modello di business basato sull’uso, invece che sulla proprietà, di un certo tipo di beni (che un economista definirebbe 'beni capitali': dall’auto all’abitazione, dal trapano al tagliaerba) comunque volto al perseguimento (nei manuali di microeconomia si leggerebbe: alla massimizzazione) del profitto.
Più recentemente perfino Luigi Zingales, preclaro economista della University of Chicago, si è soffermato sul tema affermando che «L’entrata di servizi come Uber (…) non è un gioco a somma zero. Riducendo il costo, Uber aumenta enormemente la dimensione del mercato dei trasporti a pagamento. E non lo fa necessariamente riducendo il compenso del guidatore, ma riducendo i tempi morti. L’inefficienza è data dal tempo che un taxista passa inattivo aspettando chiamate. Più questo tempo viene ridotto dalla tecnologia, più ci guadagnano sia il guidatore che il passeggero» ( Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2016). Sembra dunque esserci spazio per una riflessione a più vasto raggio che, a partire dall’affermazione di Zingales per cui «Uber non è un gioco a somma zero», discuta il tema dal punto di vista del benessere sociale o, più modestamente, da almeno tre differenti punti di vista: quello dell’ambiente, quello degli autisti-lavoratori, quello dei passeggeri e, per finire, un accenno alla prospettiva fiscale.
La scorsa estate a New York si è a lungo dibattuto sulle contrastanti interpretazioni – una prodotta dalla stessa Uber, l’altra da un analista indipendente (Charles Komanoff) – di un nuovo database contenente informazioni circa l’effetto che l’introduzione di Uber ha avuto sul traffico del centro di Manhattan (a sud della 59esima Strada). Per avere un’idea della rilevanza del fenomeno bisogna sapere che in quest’area, negli ultimi due anni, operano in media circa 2.000 auto Uber ogni giorno. Utilizzando un semplice modello di simulazione, Komanoff ha convincentemente dimostrato che l’introduzione di Uber a Manhattan ha reso ancor più congestionato il traffico di quell’area, riducendo la velocità media dei veicoli dell’8%! Sembrerebbe allora che il gioco a somma positiva (una situazione in cui entrambe le parti guadagnano) di cui parla Zingales dimentichi l’esistenza delle esternalità negative (quei fenomeni per cui la mia scelta produce sugli altri degli effetti spiacevoli che, non riflettendosi nel sistema dei prezzi, posso tranquillamente ignorare). Se l’offerta di un nuovo servizio di trasporto con autista incentiva la mia domanda di questo servizio, io farò la mia scelta confrontando costi e benefici individuali, ma non terrò conto degli effetti che tale scelta comporterà (in termini di maggiore traffico e maggior inquinamento) a livello cittadino.
Anche se guardiamo con più attenzione ai soggetti che stanno sui due lati del contratto Uber (il conducente e il passeggero) notiamo di nuovo che la visione rosea ed ottimista della scuola di Chicago sembra dimenticare qualche pezzetto, non irrilevante, di realtà. Prendiamo il guidatore: Uber è l’avanguardia di quel fenomeno che David Weil, studioso di relazioni industriali e politiche pubbliche della Boston University, in un suo libro di successo, ha chiamato il '
Fissured Workplace' (sottotitolato: 'Perché il lavoro è peggiorato così tanto per molti e cosa possiamo fare per migliorarlo'). Il fenomeno consiste nella progressiva eliminazione di una serie di mansioni, tradizionalmente ricoperte da dipendenti di una impresa, per passare a 'contratti spot' tra singoli individui ed una entità che, sovente, si manifesta sotto forma di 'app' nel proprio telefono. È questo il caso degli autisti Uber, che sempre di più e in molti paesi (dagli Usa alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Francia) stanno lottando per vedersi riconosciuto lo status di 'lavoratori dipendenti' e non quello di individui indipendenti sotto contratto. In assenza dello status di lavoratori dipendenti (e delle conseguenti tutele legali) spesso guidano per un tempo estremamente prolungato (50, 60, fino a 70 ore alla settimana), per ricavare un reddito sufficiente per vivere, dato che la loro paga oraria netta è molto inferiore al salario minimo (il più recente dato per Londra è di circa 5 sterline all’ora), a fronte di una 'percentuale' riservata ad Uber tra il 20 ed il 25% degli incassi.
Anche il tema delle ridotte garanzie e/o condizioni di sicurezza per il passeggero di un’auto Uber, rispetto ad un tradizionale taxi, è stato oggetto di un vasto dibattito. Pochi sanno che il contratto che implicitamente si stringe prima di utilizzare il servizio di Uber negli Usa avverte esplicitamente che «usando l’'app' e il servizio di trasporto Uber, voi potreste essere esposti ad un trasporto pericoloso, offensivo, nocivo per minori, insicuro (…) e che autisti e conducenti utilizzano il servizio a loro proprio rischio». Guardando più in generale a molti servizi della cosiddetta
sharing economy non va dimenticato il punto di vista della fiscalità: tali servizi risultano spesso più convenienti proprio perché, per il momento, riescono a eludere, in tutto o in parte, la fiscalità sul reddito d’impresa o da lavoro, contributi compresi. Anche in questo caso, un minor costo pagato dall’acquirente potrebbe tradursi in minori introiti per la collettività (a livello locale e/o nazionale) e dunque in minori servizi per tutti.
Per concludere, da un lato si può salutare con soddisfazione la fine dell’idealismo sociologico, dimostrato dal fatto che sempre più osservatori guardano al fenomeno della
sharing economy attraverso un’ottica realista (e la interpretano come una forma di innovazione insieme tecnologica e sociale, come d’altronde sono tutte le grandi innovazioni) e che sempre più fievoli sono le voci di chi credeva che grazie alla
sharing economy saremmo tornati ad un ideale 'stato di natura' dove la cooperazione prevale sulla competizione e la gratuità sul tornaconto. Dall’altro lato si nota con preoccupazione crescere l’idealismo economico (forse anche più pericoloso di quello sociologico) che vede nel mercato un meccanismo allocativo perfetto e nella tecnologia la soluzione di tutti i mali. Invece, ancora una volta, ogni innovazione è affidata alle nostre mani, alle nostre menti e ai nostri cuori. Sta a noi decidere se e come utilizzarla a favore del bene dell’uomo e della sua 'casa comune' o, miopicamente, contro di essa e, conseguentemente, contro noi stessi.
* Ordinario di Politica Economica Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano