La memoria delle sofferenze degli europei negli anni Venti del secolo scorso evocate da Mario Draghi nello splendido articolo recentemente apparso sul “Financial Times” permettono allo storico di proporre qualche riflessione che possa servire nell’imminente “dopoguerra” prossimo venturo.
Infatti, se mancava un tassello a completare il mosaico delle analogie tra il drammatico primo ventennio del secolo scorso e il nostro, in questi giorni purtroppo si è palesato. Non bastavano, tra le similitudini, la crisi finanziaria del 1907, nel mezzo di una illusoria Belle époque che coniugava euforia produttiva e corsa agli armamenti, le lunghe discussioni sul ruolo delle banche e tutela del risparmio, i focolai di guerra locali per fortuna solo allora sfociati nell’insensata e devastante guerra civile europea. Mancava proprio una grande pandemia, come quella che alla mia generazione veniva raccontata, con tratti che evocavano immagini da pestilenza manzoniana, dai nonni.
La vera dimensione della terribile vicenda della Spagnola, l’influenza arrivata nel 1918, può essere meglio compresa oggi, cento anni più tardi, seppure con il conforto che per nostra fortuna ci viene dall’enorme progresso fatto dalla scienza medica e dalla disponibilità di rimedi terapeutici allora impensabili.
Ma, a leggere le cronache sui giornali del tempo si rimane straniti e si è portati ad una comparazione con il tempo presente forse esagerata, ma non del tutto insensata: il disorientamento di allora e di oggi, con le minimizzazioni, con la comparazione del nuovo morbo sconosciuto con le “influenze stagionali” registrate fin dal 1884, con i ritardi, con le angosce, con l’esagerata equiparazione della “peste polmonare” con quella bubbonica del ‘600, con la triste – e, come ho detto, ben più drammatica rispetto ad oggi – conta dei decessi.
Se le ragioni della successiva esacerbazione nazionalistica che avrebbe portato, dieci anni più tardi, alla Grande Depressione, e vent’anni dopo alla Seconda guerra mondiale, furono di natura prevalentemente politica, non è fuor di luogo ipotizzare che la falcidie di quel terribile inverno 1918-19 abbia dato un contributo non secondario. Cordoni sanitari necessari e sovrapposti ai confini di un’Europa mai prima di allora così frazionata nei suoi connotati politici, culturali ed economico- finanziari, contribuirono certamente ad annacquare e poi a vanificare l’anelito, acceso dalla parola di pochi profeti (basti citare l’inascoltato presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson), per una adeguata ricomposizione su scala europea, occidentale e fintanto mondiale.
Il monito di quegli avvenimenti, che alla luce dell’oggi appaiono meno sfuocati di come lo fossero solo qualche settimana fa, può aiutarci a prendere consapevolezza di ciò che avremo, tra breve, di fronte: dopo questa “guerra”, così giustamente la definisce anche Draghi, nulla sarà più come prima. L’inevitabile choc ci porterà a fare scelte. Potremmo riscoprire sotto una luce più vivida obiettivi condivisi a parole, ma a dir poco appannati. Basti ricordarne due, di enorme portata: la prima riguarda il nostro ambito nazionale che deve veramente imparare a coniugare il global con il local salvaguardando quella biodiversità economica e finanziaria che i territori sanno generare e che permette la costituzione di filiere produttive corte, complementari con (le pur necessarie) filiere lunghe. La vicenda delle mascherine e dei respiratori polmonari (prodotti lontano e fuori dall’Italia) lo palesa.
La seconda richiede una presa di consapevolezza su scala mondiale: da una pandemia di questa portata si esce solo con un progetto globale che riveda regole divenute improvvisamente stantie e quindi palesemente inutilizzabili. Tutto ciò è ancor più evidente per un’Europa che non ha del tutto debellato il “virus” di nazionalismi esasperati accesi in anni lontani. L’Europa si troverà, nell’imminente “dopoguerra” prossimo venturo, di fronte a un dilemma inevitabile: cercare una serie di soluzioni nazionali con il rischio d’innescare una versione in chiave attuale di quel pasticcio di riparazioni/debiti/ritorsioni che minarono, sotto gli occhi di una impotente Società delle Nazioni, il primo Dopoguerra novecentesco oppure dar vita effettivamente a una Comunità.
Una Comunità ricerca in modo concertato la via d’uscita, anzi, la programma, superando interessi di parte o rivalse inutili che inevitabilmente si ripercuoterebbero su tutti. Dopo la Seconda guerra mondiale si cercò di farlo passando sopra alle divisioni (e addirittura alle responsabilità) degli anni precedenti. Il piano messo in atto abbracciò tutti i Paesi: ne fruirono i vincitori del conflitto, ma anche chi era stato sconfitto e si riuscì addirittura (anche se fortemente stimolati dalla guerra fredda incipiente) a dimenticare le tremende colpe precedenti.
La via d’uscita collettiva degli europei oggi può avere lo stesso segno: un nuovo European Recovery Plan (Erp, Piano europeo d ripresa) che dia vita a una piattaforma sulle cui basi cercare di ricostruire una vera Comunità capace di proporsi su scala mondiale come incastro importante del nuovo mosaico che si costituirà. Oggi abbiamo il vantaggio di non dover ripartire dall’anno zero, non ci sono tra noi vincitori e vinti e gli animi, soprattutto dei giovani, non sono esacerbati da pregiudizi e luoghi comuni antagonistici.
Questa volta non c’è neppure bisogno di attendere un “cavaliere bianco” d’oltre Atlantico come fu in quegli anni drammatici il segretario di stato americano George C. Marshall, da sempre identificato con quel Piano. Per questo le proposte che avanza Draghi sono, anche a parere di chi scrive, da condividersi pienamente e c’è da sperare che vi si presti ascolto. Si tratta dell’unica via d’uscita razionale capace di fare da detonatore per un miracolo economico di scala continentale. Il nuovo, auspicabile Piano potrebbe essere totalmente europeo e un nuovo George Marshall potrebbe essere già tra noi.