E così, dopo aver aver accusato la Russia di essere «aggressiva e destabilizzante», appena poche ore prima dell’inizio del vertice di Amburgo, Donald Trump riconferma invece l’originario feeling (o dovremmo dire forse fascinazione) nei confronti del suo omologo Vladimir Putin. Com’è noto, al termine del colloquio, inusualmente lungo, sia il russo che l’americano hanno rilasciato entusiastiche dichiarazioni in cui le ragioni di necessità di una maggior cooperazione tra Washington e Mosca facevano quasi da sottofondo a una "concordia dei cuori". Trump ha così ancora una volta spiazzato gli osservatori e (forse) pure gli interlocutori, anche se probabilmente dovremo abituarci a questa strategia delle "docce scozzesi", fatta di alternanza di parole, atteggiamenti e comportamenti che spesso sembrano andare in direzioni se non opposte perlomeno differenti. La seconda costante che sembra potersi rilevare nella componente personale della politica estera del presidente americano è una certa propensione a trovarsi più a suo agio con autocrati e tiranni piuttosto che con i leader delle altre democrazie. Dopo il re saudita, il presidente russo: con entrambi Donald Trump è apparso più rilassato e cordiale che non con Frau Merkel, tanto per non far nomi.
Vien da chiedersi se, dietro questo moto magari inconsapevole, non sia celata una insopprimibile insofferenza per la libera stampa, con la quale "the Donald" deve confrontarsi nonostante tutto, mentre autocrati e tiranni non hanno questa seccatura. E non c’è dubbio che la stampa americana non si è fatta né si farà incantare dal clima di calda amicizia nel quale si è svolto il vertice. Per Trump, il problema dei problemi era riuscire a dileguare le ombre che continuano a gravare circa le interferenze russe sulla campagna presidenziale che lo ha visto inaspettato trionfatore. E non ci è minimamente riuscito. Non a caso il segretario di Stato Rex Tillerson ha voluto enfatizzare il ruolo che il tema avrebbe avuto nel colloquio tra i presidenti (al quale i due ministri degli Esteri assistevano), sostenendo che Trump avrebbe sollevato direttamente la questione all’inizio dei colloqui, anche con una certa fermezza. Sergei Lavrov invece ha dichiarato che l’inquilino della Casa Bianca «non ha esibito alcuna prova del coinvolgimento russo» (che invece l’intelligence americana e il Fbi hanno fornito all’amministrazione) e che il presidente avrebbe accettato le spiegazioni del leader russo. C’è da giurare che la cosa non finirà qui. Troppe le incongruenze (anche logiche) tra le dichiarazioni fornite e gli atteggiamenti delle due parti. Russiagate a parte, il raggiungimento di un accordo per la proclamazione di una tregua d’armi nel Sud-ovest della Siria, che dovrebbe entrare in vigore oggi a mezzogiorno, è una buona notizia.
Il suo significato strategico e politico non dovrebbe tuttavia essere enfatizzato o travisato. Gli interessi americani nella regione restano incompatibili con gli obiettivi russi. Il regime di Assad si conferma un alleato irrinunciabile per Mosca e, per la sua permanenza al potere, l’alleanza con l’Iran ed Hezbollah è decisiva. Come potrà questo presidente, così legato alla leadership di Netanyahu, così vicino ai sauditi, così avverso all’accordo sul nucleare di Teheran e così ostile alla Repubblica islamica avallare questo stato di cose? Le stesse mosse americane nella regione (dall’abbattimento di un caccia di Damasco fa alla luce verde alla politica aggressiva di Riad verso il Qatar) denunciano un’avventatezza e una debolezza strategica che sono a loro volta la spia dell’impossibilità di assemblare una politica coerente verso il Medio Oriente che tenga insieme tutto e il contrario di tutto. Certo, la lotta al terrorismo è obiettivo comune, ma francamente è ben poca cosa, considerando che ognuno infila nella categoria ciò che più gli aggrada e che, dalla sua stessa origine, la «war on terror» si è dimostrata essere un ben misero criterio intorno al quale edificare un ordine mondiale condiviso in maniera sufficientemente ampia. Resta infine a creare oggettiva difficoltà la questione ucraina, della quale si è parlato molto meno nei comunicati ufficiali. Anche su questo dossier è ben difficile trovare un’intesa che non sia basata sul sostanziale appeasement rispetto al fatto compiuto. Si tratterebbe peraltro di un passo molto pericoloso, in grado di allargare ancora di più un Atlantico le cui due sponde non sono mai apparse così lontane. Un’intesa di fatto tra Mosca e Washington che venisse presa passando sopra la sua testa dovrebbe inquietare l’Europa, e la Germania in particolare. Se infatti l’allentamento della tensione con Mosca è nell’interesse di tutti, non può esserlo in quello dell’Europa un accordo nel quale la sicurezza europea e il rapporto transatlantico potessero risultare meno rilevanti della relazione russo-americana.