Caro direttore,
in Emilia Romagna come in Lombardia e Veneto, viviamo in particolar modo l’emergenza del cosiddetto nuovo coronavirus. È una emergenza che sta cambiando il nostro modo di percepire la vita, di vivere le relazioni, i contatti, la mobilità, di pianificare il futuro. Anche le attività che riguardano l’associazionismo e che afferiscono alle attività non sanitarie e al volontariato, come ad esempio nella struttura pubblica della Casa dei Risvegli Luca De Nigris, sono sospese. Fa un certo effetto. Perché per istinto la vicinanza alle famiglie, la prossimità, l’aiuto, l’empatia e le attività di risocializzazione porterebbero a non interrompere questa azione, questo flusso, mentre la ragione, le giuste ordinanze del governo pongono davanti all’emergenza, alla cautela e impongono disposizioni ferree da seguire. La diversità ci ha sempre posto nei confronti dell’altro, e dell’altro diverso da noi, con un senso di disponibilità e di generosità, di ricerca dell’uguaglianza che non è minata né dalla disabilità né dalle limitazione che l’ambiente circostante impone.
Ma quando è un virus a ricordare queste limitazioni, il contesto costruisce un muro difficile da valicare. Il nostro sguardo rischia di infrangersi contro quell’ostacolo. E il nostro regarder, per citare i francesi (anche dopo l’infelice spot su Canal plus), quel “guardo e mi riguarda”, disinnesca la seconda parola che è invece la più importante nell’azione del guardare. Guardare e percepire per agire, pensando che tutto ciò che vediamo non solo è l’osservazione passiva, ma l’interiorizzazione attiva che innesca azioni volte a superare le problematiche che contengono ciò che guardiamo. Ora siamo sospesi perché siamo portati a stravolgere il nostro modo di agire. Non è tanto il lavarsi continuamente le mani, ma la paura a prendere i mezzi di trasporto, a entrare nei luoghi pubblici, è quel metro di distanza a impedirci di essere quelli che compiutamente siamo. Siamo impauriti e la nostra voglia di normalità si scontra con la chiusura delle scuole, dei cinema e dei teatri, la sospensione dei laboratori teatrali, dei corsi, delle attività di gruppo. Possiamo sentire i nostri utenti, ma non possiamo frequentarli. Siamo bloccati. Lo siamo negli istinti più comuni, quelli che manifestano i nostri affetti, la nostra amicizia. L’altro giorno in un bar un amico medico mi ha stretto la mano, mentre un’altra persona lo rimproverava dicendogli: “Cosa fai?”.
E lui di rimando: “Mi fido”. Una bella parola, anche generosa: la fiducia. Ma è possibile fidarsi? Forse, giustamente è possibile il “mi fido di te”, mentre è molto problematico pensare “mi fido del virus” che è ancora un elemento sconosciuto e molto pericoloso. È una situazione molto complessa che incrina la nostra fiducia nei confronti dell’altro, ma nello stesso tempo frena l’istinto di quanti hanno sempre praticato, in questa società, la cultura dell’abbraccio. Che non possiamo e non vogliamo disperdere. Attraverseremo questo “cuore in inverno”, ne sono sicuro, ma la traversata non sarà facile...
Direttore Centro studi per la ricerca sul coma “Gli amici di Luca” nella Casa dei Risvegli Luca De Nigris di Bologna