Lo spettacolo dell’Europa di fronte alla crisi dei migranti è sconfortante. Di fronte a una crisi destinata a durare anni, l’incapacità di definire una linea comune getta un’ombra sinistra sul nostro futuro insieme. In un momento storico in cui i cittadini chiedono di essere protetti dalle conseguenze di una globalizzazione tecnocratica attraverso azioni politiche efficaci, l’inesistenza di una linea comune su un tema così sensibile mette in discussione il senso stesso del progetto comunitario.
La ricerca del bene comune non è parola retorica, ma concretissimo esercizio politico. Non è astratta affermazione di principio, ma coraggioso processo di costruzione di convergenze. Capace di trasformare un problema in opportunità, benché difficile da agguantare. Nella consapevolezza che senza bene comune – incessantemente ricercato e ricostruito – non ci può essere alcuna comunità politica. Di fronte a quanto stiamo vivendo in questi giorni, occorre porsi una domanda: esiste un bene comune europeo rispetto alle crisi dei migranti? E se sì, qual è? E come lo si può costruire? Senza alcuna pretesa di esaustività, proviamo a tracciare alcune concrete piste di lavoro.
Al fondo c’è una questione "identitaria". Nel senso che si tratta di dire – di dirci – che cosa vogliamo essere. Per noi, per il mondo, per i nostri figli. In questa prospettiva, la questione dei migranti va vista nella prospettiva della faticosa ricerca di una sintesi tra la nostra storia – che pone al centro la persona umana e la sua dignità – e le questioni (correttamente intese) legate alla sostenibilità economica, sociale e politica di una azione in questo campo. Una sintesi, cioè, tra il dovere "morale" dell’accoglimento – al quale ci richiama senza sosta papa Francesco consapevole che la semplice chiusura avrà profonde implicazioni sull’idea di uomo che si affermerà – e la capacità di reale integrazione di un numero elevato di immigrati. Due poli – come insegnerebbe Guardini – che vanno tenuti in tensione per delineare il bene comune.
Proprio per la natura della questione di cui ci stiamo occupando, questa sintesi non va cercata in maniera dogmatica o ideologica. Non si tratta, cioè, né di immaginare un impossibile isolazionismo dal resto del mondo – un’idea che, in ultima istanza, porta all’uso della violenza – né di idealizzare la realtà, pensando che non servano argini a un fenomeno travolgente. Si tratta piuttosto di pensare un "equilibrio a tendere" verso cui proiettare l’azione solidale dell’intera Unione. Il bene comune non è mai una statica, ma è sempre una dinamica: ricerca di un bene che ancora non c’è attraverso la condivisione di concreti strumenti d’azione. Sul tema dei migranti, ciò si traduce in quattro temi su cui va costruita una comune azione europea.
In primo luogo, la gestione del fenomeno delle migrazioni richiede una politica estera comune rispetto a tutte le aree di crisi da cui sappiamo originare le partenze. «Aiutarli a casa loro» significa, anzitutto, impegnare l’Unione Europea come un soggetto in grado di far sentire il suo peso (diplomatico ed economico) laddove è necessario.
In secondo luogo, occorre pensare a nuova politica economica che preveda la possibilità di intervenire in favore di quelle aree a maggiore impatto in termini di flussi di persone: si potrebbe finalmente articolare e strutturare il cento volte evocato nuovo Piano Marshall. È solo in questa linea che possono diventare più realistici gli "hot spot" (campi di raccolta di profughi, richiedenti asilo e migranti economici) di cui si è parlato in questi giorni. Soprattutto se pensati in modo preventivo, come punti di informazione e orientamento.
Il controllo delle frontiere europee – terzo punto – costituisce una delle condizioni per l’esistenza di qualsiasi comunità politica. Su questo aspetto occorre fare chiarezza. Sì tratta infatti di un compito comune che va perseguito sulla base di linee di indirizzo condivise e in continuo adattamento capaci di tradurre quella tensione polare sopra ricordata.La complessità e delicatezza della questione suggeriscono la creazione di uno strumento di coordinamento dotato di poteri effettivi. Il quarto tema è quello delicatissimo della distribuzione dei migranti tra i diversi Paesi dell’Unione. Un nodo spinoso, che si potrebbe attenuare decidendo che le risorse per l’integrazione vengano garantite da una linea di finanziamento europeo. Se l’obiettivo è quello di 'formare nuovi cittadini europei', tale spesa va rubricata nella voce 'investimento'. Semplicemente perché l’integrazione richiede un lavoro lungo e paziente che necessita di risorse e competenze. In questa cornice, è ragionevole che la possibilità di spostarsi dal Paese di prima accoglienza vada prevista alla conclusione di tale processo formativo, così da minimizzarne l’impatto sociale. Nessuno può immaginare che si tratti di un percorso facile.
Ma l’unica cosa intelligente che l’Europa può fare è, appunto, trasformare un problema in una opportunità per tutti. Obiettivo raggiungibile se il bene comune non viene ridotto alla sua caricatura, e cioè alla ricerca micragnosa di un interesse medio che non si troverà mai e che alla fine manderà in frantumi la stessa Europa. Il vero bene comune in questo caso è una comune proiezione in avanti verso un bene che ancora non c’è. E che sollecita tutti – istituzioni, economia, società, cittadini – a mettersi in movimento. Come ha detto una volta Mandela, «viene il tempo di accettare nei nostri cuori e nelle nostre menti che con la libertà viene la responsabilità». L’Europa ha un futuro solo se sarà capace di questo passo. Noi lo speriamo.