Non meravigliamoci se gli irriducibili del leave (come Nigel Farage) gridano al tradimento, se preoccupati e sgomenti gli irlandesi si domandano se il confine fra l’Ulster e l’Irlanda resterà aperto o diventerà un’area di tollerato contrabbando di merci, se gli scozzesi già compulsano con acribia ogni capitolato dell’accordo per accaparrarsi un vantaggio giuridico in vista di una futura separazione da Londra e neppure se altri fervidi sostenitori del divorzio fra il Regno Unito e l’Europa comunitaria (come il ministro degli Esteri Boris Johnson) stiano in prudente silenzio: perché l’agreement raggiunto ieri all’alba a Bruxelles fra il premier Theresa May e il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker – accordo che dovrà comunque ricevere l’approvazione dal vertice dei capi di Stato e di governo Ue del 15 dicembre prossimo – assomiglia più a un accomodamento che a un divorzio.
Meglio per tutti, si dirà: più amichevolmente ci si lascia e migliori potranno essere le relazioni future. L’accomodamento, frutto di lunga e operosa trattativa («un tiro alla fune, più che altro, quasi una drôle de guerre», mormorano in varie cancellerie), si rivela come previsto piuttosto oneroso per Londra – che pagherà tra 40 e i 45 miliardi di euro, (l’Europa chiedeva tra 60 e 80, May all’origine ne offriva 20) – e non implicherà una frontiera fisica fra Dublino e Belfast; in compenso tutelerà gli oltre 3 milioni di cittadini dell’Unione che lavorano nel Regno Unito sottoponendoli al diritto britannico, riconoscendo il ruolo della Corte di Giustizia Europea come arbitro ultimo nell’interpretazione della legislazione Ue, ma al contempo svincolando l’Isola dalla giurisdizione della Corte Europea di Strasburgo. Non solo: sganciandosi dall’Europa la Gran Bretagna si scuote di dosso – e ciò non le fa onore – i dossier europei più spinosi, dall’armonizzazione fiscale all’immigrazione, dalla sicurezza delle frontiere alle discipline di bilancio, gli stessi cioè sui quali è sempre stata riottosa ed evasiva.
All’accordo finale si è giunti fra faticosi compromessi e sottili limature. Entrambe le parti ne avevano gran bisogno: May per rimanere in sella e mettere a segno un successo politico dopo mesi di rovesci – elettorali e non – allontanando il rischio che a succederle potesse essere l’antieuropeista convinto Boris Johnson, fautore di una <+CORSIVOA>hard-Brexit<+TONDOA>; l’Europa per non scivolare in un tormentoso e logorante conflitto. Per questo i tre punti principali su cui ci si è accordati hanno richiesto saggezza e buon senso.
Soprattutto sul fronte interno: Londra ha dovuto apportare ben sei modifiche rispetto al prospetto originale per accontentare gli unionisti nord-irlandesi, quella parte cioè dell’elettorato protestante che vuole rimanere a tutti i costi attaccata al Regno Unito e guardava e guarda a ogni euro-cedimento come a un primo passo verso l’unificazione dell’Irlanda. Come dice il premier italiano Gentiloni, «L’Italia non è mai stata per il no deal.
Su Brexit è stato raggiunto un accordo positivo. Sono certo che il Consiglio Ue sarà rilanciato'. La City e la sterlina hanno istantaneamente celebrato l’evento. Meno di buon umore il ventre molle del Regno, istigato e indotto all’uscita dall’Europa da promesse immantenibili e oggi perplesso, confuso, forse anche in parte pentito di quella scelta. In ogni caso ora si apre un periodo di transizione, una gestione meticcia, con leggi europee e dispositivi britannici, insomma, un pasticcio – un vero e proprio ircocervo, a dirla con un figlio illustre della Britannia, Guglielmo di Ockham – che rende ancor più evanescente e indecifrabile il concetto stesso di Brexit: e lo si vedrà nella seconda fase, quando nei prossimi 15 mesi (l’uscita è fissata per il mese di marzo 2019 e non è scontato che all’epoca la May e altri leader europei saranno ancora al loro posto) si discuteranno le relazioni commerciali fra Regno Unito e Unione Europea.
E allora sì – Margaret Thatcher docet , con i suoi sconti, le sue esenzioni, i suoi micragnosi calcoli di bottega – ci sarà battaglia vera. Ma a questa schermaglia Bruxelles è da sempre abituata: in fondo, i rapporti con Londra sono sempre stati una soft-Brexit . «Separarsi – ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – è difficile. Ma separarsi e costruire una nuova relazione è molto più difficile». Tanto che Oltremanica più di qualcuno vorrebbe tornare indietro. Non sarebbe facile neanche questo. Ma stiamo all’oggi e al domani previsto e prevedibile: qui si misureranno maturità e lungimiranza di tutti.