Giunge all’approdo la legge sulla tortura. L’Italia paga il debito giuridico verso la comunità del mondo e verso i trattati internazionali che ha ratificato ma non ancora tradotto in norme interne. Ma questa legge che entra in porto dopo il rimpallo fra Camera e Senato sembra una navicella dalle vele un poco afflosciate rispetto a quelle dispiegate al suo avvio.
Tortura è una parola che brucia la coscienza, disonora e fa bestiale l’uomo. Il pensiero va fulmineamente a Giulio Regeni, al suo corpo distrutto che l’Egitto ci ha ridato; ma anche all’irrisolta vicenda di Stefano Cucchi, in casa nostra, e all’impressionante immagine del suo patimento a morte. E poi alla storia infinita dei torturati nelle dittature antiche e moderne; delle brutali violazioni che si compiono negli Stati tirannici contro uomini inermi; ma anche di ciò che in casa nostra fu chiamata «macelleria messicana» alla scuola Diaz dopo il G8 di Genova (episodio per il quale la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per "tortura", appunto).
Oggi l’Italia adempie agli obblighi di introdurre nel codice penale questo specifico crimine. Lo fa tardi, e secondo alcuni lo fa in modo confuso e incoerente. Le norme internazionali contro la tortura sono una litania lunga; lunga e dolente, ripetuta, come qualcosa che stenta a prender concreto vigore, a farsi vera fra le menzogne. Svetta su tutte la Convenzione Onu del 1984, che definisce la tortura come «qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche (…) qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un agente della funzione pubblica o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito».
Comprendere che la tortura appartiene al rapporto della vittima con il potere pubblico è essenziale per caratterizzare questo delitto come «proprio», cioè specifico di una categoria di soggetti, e non invece generico, cioè di chiunque. La versione italiana parla invece di chiunque abbia relazione di «custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza», e sembra fatta per temperare la protesta di chi temeva o biasimava la minaccia selettiva contro le «forze dell’ordine»; e neppure la spegne, la protesta, perdurando i commenti negativi come se la previsione insultasse la «sacralità» delle divise.
Ma senza fare d’ogni erba un fascio, va detto chiaro che non c’è divisa che legittimi la pratica indegna della violenza, di nessuna violenza, fisica o psichica, su un soggetto che sta nelle mani (o nelle maglie, o nella morsa) della legge. Per il pubblico ufficiale c’è un’aggravante. Una volta chiesi a un giudice greco notizia su un imputato italiano riparato là; mi rispose «kratèitai» (è detenuto), e sentii in quel verbo passivo – kratos è letteralmente la forza – il carcere come spossessamento di sé. Chi è in potere dello Stato non può essere violato nella sua dignità; e non occorrono reiterati sadismi a infrangerla, un sol gesto può bastare.
Molti pensano che questa legge, generalizzata e dunque stemperata, è insufficiente presidio ma sempre meglio di niente. La giurisprudenza avrà il suo daffare per sbrogliarne le oscurità. Ma qualche conto con la disinvolta o disincantata abitudine che l’opinione pubblica ha nei confronti delle violenze di questo tipo – non solo quelle dei telefilm polizieschi dove il duro sta sopra la legge e il terzo grado ammorbidisce i reticenti, ma anche quelle delle cronache tv di pestaggi dal vero che in Usa hanno innescato rivolte – dovremo farlo anche noi.
Non solo basta con le botte: basta con le umiliazioni, che a volte scottano più delle frustate. Il cuore della novità che ci attendiamo non ce lo darà il lessico di questa legge imperfetta. Il bando della tortura dal mondo (cominciando da casa nostra) non vale predicarlo, va introdotto nel profilo, nel cuore di chi ha «potere». E nell’opinione pubblica, risvegliata e sdegnata, non a tratti, ma sempre. O se no lo scandalo è che ci siano così tante Carte e convenzioni e proclami e protocolli aggiuntivi a vietare la tortura, dal 1948 ad oggi, e vederla tollerata, giustificata, promossa persino. Che non diventi anche questa tardiva legge italiana l’alibi morale per dire che l’abbiamo condannata, proscritta, esecrata (con qualche consueta timidezza) senza riuscire a toglierci dall’ipocrisia di virtuose menzogne.
<+RIPRODUZ_RIS>