La logica del giudizio, in ogni processo penale, ha una struttura costante. C’è un fatto da verificare, una norma da interpretare e applicare, una colpevolezza da accertare o escludere. Davanti alla Corte d’Assise di Milano nel processo a Marco Cappato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, qualcosa si è inceppato. Non nella ricostruzione del fatto: un uomo che accompagna appositamente in Svizzera un altro uomo a uccidersi. Non nella chiarezza della norma, che incrimina l’agevolazione del suicidio fatta «in qualsiasi modo». Non nella intenzionalità della condotta, confessata e anzi ostentata dall’imputato. Assolto dall’accusa di aver rafforzato il proposito suicida, ma non da quella di aver agevolato il suicidio. Se il viaggio in auto verso la morte fosse stato ritenuto irrilevante, estraneo alla fase "esecutiva", la Corte avrebbe assolto del tutto.
Ma una motivazione così non sarebbe piaciuta all’imputato, desideroso di sentire, come la difesa e l’accusa all’unisono, una lettura della norma intonata al diritto al suicidio per chi reputa la propria vita insopportabile; ed esente da pena chi l’aiuta a morire «con dignità». Non dunque un desiderio di assoluzione qualsiasi: il bersaglio vero era colpire la norma, la richiesta era di manipolarne il senso, slacciarlo dal testo e "orientarlo" (come si suol dire) verso i princìpi costituzionali, giocando l’atout dell’autodeterminazione. La Corte ha rifiutato anche questa soluzione assolutoria: le parole della norma restano quelle che sono, e il senso quello che è. Ma non ha condannato. Non ha condannato perché ha dubitato che la norma sia costituzionalmente illegittima, quando incrimina l’aiuto al suicidio per chi non ha influenzato la volontà della persona che si uccide. Ciò per i princìpi di libertà e dignità che spettano, si dice, in tema di decisione sulla propria morte. E ha rimesso gli atti alla Consulta.
Cosa accadrà in quella sede nessuno ora può dire. Ma alcuni concetti fondamentali ritagliano sin d’ora i limiti di un possibile intervento del giudice delle leggi. Ipotizzare una pronuncia semplicemente abrogativa dell’agevolazione del suicidio "in genere" pare in assoluto un non senso (e non è pensabile che l’ordinanza di remissione la solleciti), quand’anche si inventasse che la Costituzione assegna una libertà individuale di «decidere come e quando morire». L’art. 580 del codice penale non riguarda, invero, il gesto (individuale) del suicida, non raggiungibile da pena, ma il gesto (sociale) di un altro, che di certo non ha diritti su quella vita e concorre nel procurarne la morte. È proprio qui la differenza inconfondibile. Si è tanto discusso della peculiarità del caso disperato. Ma in termini di diritto, chi può arbitrare le differenze fra suicidio e suicidio, per vagliare quale merita aiuto senza pena e quale no?
La vicenda processuale di Milano ha incontrato una fattispecie di grande sofferenza e disabilità fisica, che gronda dolore. Ma chi esplora qualcosa nelle statistiche dei suicidi sa che esistono dolori e disperazioni dell’anima non meno torturanti, e forme depressive che annientano la voglia di vivere. Ci sono suicidi adolescenti. Ci sono pulsioni di morte che salgono da lutti, o rimorsi, o sensi di vergogna e di rovina. Uno dei luoghi dove il suicidio è più frequente è il carcere. Se la regola è il diritto di morire quando la vita è divenuta indegna, e giudicare l’indegnità spetta a chi vuol darsi la morte, è lecito agevolare il libero e deliberato suicidio dei detenuti? O non è tempo di mutare sentimento e proporre aiuto e conforto solidale, per rimontare la disperazione di molti, quella che Kierkegard chiamava la «malattia mortale»?
Si dirà che non sono questi i casi da prevedere. Sì, ma il catalogo casistico è proprio quello che la Corte costituzionale non può fare, e non farà. È il giudice delle leggi, ma non il legislatore. Non potrà inserire varianti discrezionali secondo i tipi di suicidio ammesso e di suicidio escluso dall’agevolazione, a suo criterio. E generalizzare la liceità è la cosa più disumana. La più incostituzionale.