Nonostante l’ottimismo del capo negoziatore statunitense Zalmay Khalilzad, per il quale le trattative aperte con i taleban possono finalmente portare a una pace onorevole per l’Afghanistan, all’indomani della conclusione dell’ottavo round di incontri diretti fra le due parti, i contenuti di questo possibile armistizio rimangono troppo ambigui.
L’impressione è che gli Stati Uniti non stiano cercando una strada – per quanto impervia – che porti alla creazione di una vera pace positiva e sostenibile nel Paese e che fermi lo stillicidio quotidiano di morti militari e civili. Piuttosto, essi sembrano voler raggiungere un compromesso con parte del frammentato movimento dei taleban che permetta a Donald Trump di ritirare i soldati ancora schierati in Afghanistan, in tempo per la campagna elettorale del prossimo anno.
Una delle tante roboanti promesse fatte a suo tempo dal presidente statunitense, in questo caso contro la volontà dei vertici militari e di molti dei suoi consiglieri. Ma ormai, alla Casa Bianca, non è rimasto nessuno dei generali (Mattis, McMaster e Kelly) che dovevano consigliarlo e imbrigliarne l’estro anarchico e ondivago e nulla sembra opporsi alla sua volontà di ritirare i circa quattordicimila soldati ancora impegnati in funzioni di sostegno alle forze militari afghane.
Una mossa che porterebbe ovviamente alla smobilitazione di tutti i contingenti Nato ancora presenti (compreso il nostro). E del resto risulta evidente che la guerra contro i taleban è, se non perduta, impossibile da vincere. Da quasi vent’anni questi 'studenti del Corano' si battono contro i contingenti Nato e contro le Forze armate nazionali afghane, senza che le gravi perdite che subiscono ogni anno li spingano a fermarsi o a limitare gli attacchi. Dal 2014 sono morti almeno quattordicimila soldati afghani e lo scorso anno le vittime civili hanno raggiunto nuovi picchi, mentre le violenze si diffondono in quasi tutte le province del Paese. Inevitabile quindi pensare a un armistizio, che apra a un compromesso politico.
La particolarità di questi colloqui svolti in Qatar, tuttavia, è che non prevedono la partecipazione del governo legittimo di Kabul. Sono colloqui fra gli Stati Uniti e i gli insorti che ruotano attorno a uno scambio: il ritiro americano in cambio dell’impegno degli insorti a non offrire asilo e protezione a gruppi jihadisti e la loro disponibilità a un cessate il fuoco per avviare trattative dirette con Kabul. Da un lato vi sarebbe un passo, quello del ritiro Nato, molto tangibile e dagli effetti duraturi, in cambio di promesse facilmente reversibili da parte dei taleban. Oltretutto, essi sono ormai una sorta di galassia frammentata, dai rapporti mutevoli e ambigui con i movimenti che sostengono il jihad globale (a volte li combattono altre volte si accordano con essi). Ostacolo ancora maggiore è quello di far accettare al Governo del presidente Ghani un’intesa presa sopra la sua testa, proprio mentre è in corso la campagna per le nuove elezioni presidenziali.
Competizione elettorale come sempre insanguinata dagli attacchi degli insorti e che i taleban chiedono di fermare quale condizione per avviare trattative dirette. Una richiesta che Kabul rifiuta, dato che lascerebbe al comando un presidente dimezzato e senza un vero mandato popolare, e che sembrerebbe oggettivamente una capitolazione. È chiaro quindi che, quand’anche Washington chiudesse un accordo, la via per trasferirlo sul terreno dell’Afghanistan sarebbe lungo, impervio e problematico. E che dire poi alle donne afghane e alla società civile di quel Paese che per molti anni abbiamo sostenuto e illuso? O alle famiglie delle decine di migliaia di civili massacrati nei feroci attentati suicidi mentre facevano spesa al mercato o si recavano a scuola? E dopo tutte le promesse di sostegno fatte ai vertici politici di Kabul, si possono imporre loro le conseguenze di un compromesso a cui non possono far altro che adeguarsi? Il rischio vero è che per mero calcolo elettorale si affretti un processo politico finora sempre fallimentare, lasciando nuovamente l’Afghanistan in balìa delle violenze interne.