Questa volta si è trattato dell’Università di Kabul, secondo il solito feroce schema: attentatori suicidi e terroristi che sparano a tutto ciò che si muove – ieri studenti, professori in fuga dalle aule e dalle biblioteche, diplomatici che inauguravano una fiera letteraria – finché le forze di sicurezza non sono riuscite a neutralizzarli. Venticinque morti, ancor più feriti. Non sembra esistere un luogo sicuro dagli attacchi ora dei taleban e ora di Daesh: scuole, ospedali, mercati. E la furia contro i luoghi della formazione e contro i giovani – uomini e (sempre meno) donne – che li frequentano, si scatena con terribile determinazione. È la triste litania di attentati da parte dei diversi oppositori del governo afghano contro obiettivi civili che continua ininterrotta da anni, puntando solo a fare massacri e a spargere terrore.
E che non sembra voler diminuire nonostante i negoziati di pace che il governo di Kabul è stato forzatamente spinto ad aprire con i rappresentanti di diverse fazioni del movimento tribal-islamista che da quasi trent’anni insanguina l’Afghanistan. L’attentato di ieri è stato rivendicato dal gruppo jihadista del Daesh, da tempo attivo fra Pakistan e Afghanistan e impegnato in una guerra strisciante proprio contro i taleban per il controllo delle zone di frontiera fra i due Paesi.
L’obiettivo dell’azione, oltre a ribadire la capacità d’azione del pur indebolito movimento jihadista è probabilmente quello di far deragliare i colloqui per un accordo politico fra Kabul e i taleban, che stanno procedendo fra mille incertezze e difficoltà.
In ogni caso, è evidente che la strategia voluta frettolosamente e a tutti i costi dal presidente Trump – ossia di accordarsi con i taleban dopo averli combattuti per anni con la Nato, così da poter ritirare i soldati statunitensi da quel teatro di operazioni dopo due decenni – mostra i suoi drammatici limiti. E ancor più le pericolose conseguenze di un ritiro occidentale affrettato, senza un quadro politico interno chiaro e stabile.
La clemenza mostrata da parte del governo di Kabul – clemenza forzata, dato che è stata imposta da Washington – che ha portato alla liberazione di migliaia di guerriglieri taleban prigionieri non ha pagato. Anzi, sembra aver solo reso più aggressive queste milizie che, se da un lato negoziano un accordo politico, dall’altro aumentano gli attacchi per occupare il maggior numero di province e distretti. Lasciando intendere che, una volta ritiratesi le forze della Nato, la loro vittoria militare sul campo sarebbe una possibilità molto concreta.
Ma anche l’apertura di credito statunitense non sembra aver pagato nello spingere il movimento a moderarsi e a recidere i contatti con al-Qaeda. Del resto è risaputo che la rete terrorista che fu di Osama Benladen è da sempre imparentata con la realtà germinata dalle madrasse fondamentaliste. Un recente rapporto Onu evidenzia come molte frange taleban mantengano ancora stretti legami e coordinamento con le cellule qaediste.
La lotta contro Daesh, sbandierata tanto dai loro rappresentanti quanto dai diplomatici statunitensi, che cercano così di giustificare e nobilitare il loro accordo, non è quindi contro la violenza cieca e il fanatismo del terrorismo islamista. Si tratta invece semplicemente della lotta contro un gruppo – come Daesh – che ne minaccia il potere e gli affari leciti e illeciti lungo le impervie montagne afghane. L’amara verità è che tanto Daesh, quanto al-Qaeda e i taleban non possono rinunciare alla violenza e alla brutalità contro i civili perché è l’unico strumento di cui dispongono per mantenere e rafforzare il loro potere.
Tutti i sondaggi effettuati in Afghanistan sottolineano come gran parte della popolazione, pur disgustata dalla corruzione e dall’inefficienza del governo di Kabul, non voglia il ritorno di questi fanatici militanti islamisti e tanto meno sia attratta dal terrorismo jihadista. Ai vertici dei taleban abbiamo offerto la possibilità di riaccreditarsi politicamente tramite le trattative con Washington. Ma il posto in cui dovrebbero stare i loro capi è il tribunale internazionale per i criminali di guerra. Non i tavoli adornati degli incontri internazionali, come rispettati rappresentanti diplomatici.