La fatica della lotta, i negazionisti e no
venerdì 20 novembre 2020

La signora in coda al supermercato la butta giù facile: io non li farei neanche entrare in ospedale. A dispetto della perentorietà, lo sfogo ha una sua logica: se il virus non c’è, se credi che non esista, combatterlo sarebbe un’inutile perdita di tempo.

Che almeno non si sprechino energie e risorse destinate a chi invece vuole vincere la malattia. Nel Paese del complottismo fondato sul sentito dire, in cui basta aver letto due articoli su internet per pretendere di zittire un primario, sta lentamente prendendo piede un 'nuova' figura di negazionista. Quella che oppone il proprio no al no degli altri. Non indossi la mascherina e il Covid per te è un’invenzione? Bene, se ti ammali non ti curo.

Il dibattito finora limitato al bar sport dei social rischia a poco a poco di allargarsi. Secondo un’indagine condotta dall’agenzia Kantar Health all’indomani della notizia del vaccino Pfizer, solo il 38% degli italiani sarebbe pronto a farselo inoculare appena disponibile mentre i no riguardano 16 persone su 100. Parallelamente nella vicina Svizzera l’economista sanitario Willy Oggier ha proposto di 'schedare' gli scettici del Covid che qualora le terapie intensive fossero in difficoltà, finirebbero in fondo alla lista che assegna i letti. 'Chi è causa del suo mal pianga se stesso', verrebbe voglia di dire citando il proverbio. E invece no, non va bene affatto. Perché, senza scomodare politologi o filosofi, la convivenza civile non si fonda sul merito, ma sull’appartenenza, non è un premio che spetta ai buoni, ma una radice che nutre l’unica pianta dello stare insieme dove devono trovare riparo con gli stessi diritti, favorevoli, titubanti, contrari. E pentiti.

Guai se iniziassimo a fare graduatorie tra chi va curato e chi no, si finirebbe in un pericolosissimo vortice di distinguo per età, reddito, magari simpatia. Gli ospedali e le cliniche sono fortunatamente tutt’altra cosa, in sala operatoria e nelle corsie l’unico criterio da seguire riguarda l’urgenza e la gravità, il resto rientra nel bagaglio di vicinanza umana che spetta a tutti, negazionisti compresi. Non a caso nel loro celebre giuramento i medici si impegnano a «curare ogni paziente con scrupolo e impegno» senza discriminazione alcuna. Come nelle squadre di calcio dove non conta se sulla schiena hai il numero 7 o il 21, è sufficiente che la tua maglia sia identica alla mia perché io ti passi la palla. Tutti insieme, anche se poi negli spogliatoi non ci si parla, per lo stesso obiettivo, che sul terreno verde è il gol, la vittoria, mentre nella vita quotidiana si chiama felicità, o per dirla più cristianamente, salvezza dell’uomo, di ogni uomo e donna. Si tratta di stare sempre dalla parte della vita, di qualunque vita, perché non ne esiste nessuna che non meriti di essere vissuta, compresa quella di chi in apparenza la rifiuta o banalizza il male.

Per questo nella ricerca delle terapie va perseguita la globalizzazione buona, quella che evita l’emarginazione, meglio 'la marginalità' farmaceutica, pericolosa frontiera di ingiustizia tra chi può permettersi di spendere il necessario per tentare di guarire, e chi no. Nella visione cristiana significa arricchire la comunità con il surplus della carità, che va oltre la pur necessaria solidarietà, è empatia, è condivisione, è farsi carico della sofferenza degli altri a partire dalla forza della preghiera, sapendo che, se necessario, verrà fatto altrettanto con noi. Un criterio che resta valido anche se si scende a un piano più basso. «In mezzo ai flagelli – spiega Bernard Rieux il medico protagonista de 'La peste' di Camus – si impara che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare».

Proprio così, quando stiamo male risulta più facile ricordare il bello che abbiamo perso e diventa quasi naturale mettere i nostri occhi in quelli del vicino di dolore, alla scoperta del bagaglio di tenerezza che ha ricevuto in dono, come il talento della parabola. Dalla tempesta che ci ha travolto si può uscire migliorati solo se si naviga tutti sulla stessa rotta, magari tirando sulla barca anche l’antipatico presuntuoso che fino a pochi minuti prima rideva delle onde.

Chi in queste ore lotta contro un nemico invisibile, con tanta fatica e poche soddisfazioni, testimonia che l’umanità è un abito da indossare sempre, non solo quando ti fa comodo. Dimostra che la carità ci fa andare oltre noi stessi, ci rende partecipi, per riprendere il testo sacro, della vita del Padre. Concretamente significa chinarsi sulle ferite del piccolo, del povero, dell’umile, dello sporco, persino di chi nega di essere malato. Vuol dire rispondere al suo no, a ogni no, con l’unico sì che conta. Quello alla vita, quello all’amore.

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