«Visto l’orrore di quello che c’è stato, non ci sarà nessuna conferenza stampa». Il capo della Squadra Mobile di Milano è certo un uomo che ne ha viste tante. Ma questa sua frase dell’altra mattina, riferita dai cronisti di tutte le testate giornalistiche, se ti fermi a pensarci pesa come piombo. Un dirigente della Polizia in una grande metropoli sa a memoria violenze, omicidi, stupri. Ma quel bambino di due anni, riverso e immoto in una stanza di una casa popolare occupata a San Siro, il corpo tumefatto di lividi, i piedi fasciati come se qualcuno, alla buona, avesse tentato di medicarlo: l’immagine di quel bambino martoriato è troppo, perfino per il capo della Squadra Mobile.
«Non ci sarà nessuna conferenza stampa», dice, oppresso, quasi sfinito dal male visto. A uccidere è stato il padre, giovane rom nato in Italia, piccoli precedenti penali, tante foto sui social in cui sorride esibendo una pistola, e vestiti firmati. Ha detto che non sa perché è successo, che era fatto di droga, si è svegliato di notte e ha preso a picchiare Mehmed, a picchiarlo finché è morto. La mamma, 23 anni, incinta del quarto figlio, ha chiamato un’ambulanza.
L’hanno trovata immobile, accanto al suo bambino. Sarà stata lei a fasciargli i piedi, a tentare di curare il piccolo, che già da tempo secondo il medico legale veniva maltrattato? Il piccolo morto di botte in un misero appartamento occupato, è troppo anche per chi è abituato a vedere ogni violenza. Comprensibile la reazione del poliziotto milanese, anzi, diremmo, un segno di umanità, e di rispetto per tanto dolore. E tuttavia è necessario che di quel bambino si parli, che questa storia non venga rapidamente dimenticata. Noi non abbiamo visto quel corpo infantile, noi non vogliamo immaginarcelo.
Il piccolo migrante curdo annegato Alan ci aveva sconvolto. Il bambino di Milano non lo vedremo, ma non per questo possiamo cercare di scordarcelo. Quale bolla di miseria e di ignoranza e solitudine si spalanca, in questa storia, a poca distanza dallo stadio di San Siro: in quella grande città che nella crisi continua a marciare, a lavorare, a correre, pure in un’Italia affannata. Venticinque anni il padre e ventitré la madre, fossero nostri figli li chiameremmo ancora 'ragazzi'.
Rom cresciuti qui, forse andati nelle nostre scuole. Lei conosciuta come borseggiatrice, lui che nei selfie esibisce orgoglioso oggetti di lusso e bustine di droga: ma i figli scalzi, i pannolini sporchi, la casa un tugurio. E quel piccolo sistematicamente picchiato, magari protetto a stento dalla mamma, infine massacrato, l’altra notte, tra grida cui nessuno nel palazzone malandato ha badato. Viene da chiedersi dov’era Milano, intanto, e perché nessuno prima è intervenuto, permettendo il calvario di un bambino di due anni e mezzo. In quell’età in cui non stanno mai fermi, e domandano, e sono sempre attorno, con occhi curiosi e sbalorditi. In quell’età in cui siamo tutti veramente, ricchi e poveri, ancora uguali.
Chiunque ha un figlio o un nipote, sa che quel Mehmed gli somigliava. E comprende bene l’amarezza del poliziotto che dice: troppo orrore, nessuna conferenza stampa. Eppure temiamo che di Mehmed, in certi caseggiati del Lorenteggio o del Giambellino, ce ne siano altri. E abbiano urgentemente bisogno di aiuto e di amore. Bisogno che la grande metropoli 'europea', il cuore del made in Italy, il modello di un’Italia laboriosa e ostinata, si chini su queste periferie, apra le porte chiuse dalla diffidenza e dall’emarginazione. Se non altro perché dietro quelle porte stanno anche dei bambini come Mehmed. E sono, ci potremmo giurare, fin negli occhi e nelle domande, identici ai figli nostri.