domenica 7 maggio 2017
Caro direttore non sono mai stata una grande appassionata di calcio. Tuttavia, credo che meriti una qualche riflessione la decisione della Federcalcio di annullare l’ingiusta squalifica ...
Il caso Muntari e i volti deformati dell’intolleranza
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Caro direttore
non sono mai stata una grande appassionata di calcio. Tuttavia, credo che meriti una qualche riflessione la decisione della Federcalcio di annullare l’ingiusta squalifica al calciatore ghanese Sulley Muntari che aveva abbandonato per protesta il terreno di gioco la scorsa domenica dopo essere stato insultato dai cori razzisti di alcuni tifosi avversari. Persino l’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani aveva considerato il gesto del calciatore un esempio contro il razzismo, un atto da «premiare» pubblicamente e non da censurare come se si fosse trattato di un’azione sconsiderata. Ma archiviata la vicenda con il ravvedimento della giustizia sportiva rimane l’interrogativo: che Paese stiamo diventando? Come possiamo andare nelle scuole, nei posti di lavoro, nel mondo sportivo e tra i giovani a predicare la cultura e i valori dell’accoglienza, dell’integrazione, dell’inclusione sociale, della lotta alla xenofobia quando negli stadi italiani si consumano ogni domenica episodi di razzismo nonostante le sanzioni che sono state introdotte a livello internazionale contro le discriminazioni razziali? L’Italia è stata sempre una nazione di emigranti, di gente povera che è andata a cercare fortuna anche nelle zone più sperdute del mondo. Tutti noi abbiamo avuto un nonno, un parente o un conoscente che ha vissuto sulla propria pelle i problemi di una difficile integrazione in un Paese straniero. Parliamo di milioni di italiani spesso derisi per il loro stato di miseria, emarginati, costretti a vivere in baracche e in condizioni sanitarie davvero terribili. Ho avuto la fortuna di visitare il Museo nazionale dell’immigrazione di New York dove sono registrati migliaia di immigrati italiani, schedati fino a mezzo secolo fa come se fossero degli animali, definiti come «piccoli e scuri, che puzzano e rubano». Questo scrivevano dei nostri connazionali nella Relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, nell’ottobre 1919. È chiaro che un giocatore di calcio di serie A, un professionista ben pagato, non può essere paragonato ai profughi disperati che sbarcano a Lampedusa o a Pozzallo. Ma certo fa specie che oggi ci siano degli italiani che durante una partita di calcio fanno 'buuu' o il verso della bertuccia a un’altra persona – ripeto: a una persona umana – e le lanciano banane, come è accaduto più volte, alimentando negli stadi e nella società un clima di intolleranza e a volte di incitazione alla violenza contro chi ha un colore di pelle diverso dal nostro. Ecco perché non bisogna avere tentennamenti nell’applicare le regole: dobbiamo fermare le partite di calcio e gli altri eventi sportivi quando ci sono cori razzisti, individuare e sanzionare chi insulta la dignità umana. Non importa se sono tre, dieci o cento tifosi. Non fa differenza. Il razzismo non va via da solo. Va combattuto senza se e senza ma. Minimizzare, come di fatto è accaduto domenica scorsa nello stadio di Cagliari, è stato un errore imbarazzante, una chiara dichiarazione di resa all’incultura del razzismo, a questo clima avvelenato di scontro etnico che si sta vivendo in tutto il mondo e anche nella nostra Europa civilizzata, con il ritorno dei nazionalismi, questa voglia di chiudere gli occhi e di erigere muri, di attaccare strumentalmente persino l’opera straordinaria delle Ong umanitarie, con questo desolante desiderio di isolamento, di armarsi per difendersi, di indifferenza e astio nei confronti di tante persone la cui unica colpa è di avere la pelle scura e di scappare dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla fame.

*Segretaria Generale della Cisl

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