Nella corsa alla Casa Bianca la politica estera resta ai margini
mercoledì 21 agosto 2024

Si dice spesso, ovviamente in modo paradossale, che nelle elezioni americane dovrebbero avere voce anche i cittadini dei Paesi che sono influenzati dalle scelte della superpotenza globale. Che si possa solo pensare un’eventualità simile è uno dei pregi della democrazia: nessuno, infatti, avanza la stessa ipotesi per la Russia di Putin o la Cina di Xi Jinping, che pure compiono decisioni rilevanti per tanti milioni di abitanti del Pianeta (chiedere agli ucraini o ai tibetani, per fare solo due esempi). Ma, nei fatti, per la Casa Bianca votano unicamente coloro che hanno la cittadinanza statunitense i quali, pare, non sono in maggioranza interessati alla politica estera. Di qui la strana percezione che, al di qua dell’Atlantico, possiamo avere della Convention democratica in corso a Chicago. Da una parte, c’è l’attesa per gli orientamenti sulle crisi più gravi in corso, le possibili correzioni di rotta di Washington sulla guerra in Europa e la tragedia di Gaza. Dall’altra, vediamo che al centro della scena sta invece il racconto di una storia personale, la costruzione di un immaginario tutto piegato, com’è naturale, sull’America che ha visto il traumatico (e, insieme, liberatorio) trasferimento di candidatura da Joe Biden a Kamala Harris.

I passaggi intimistici dei discorsi, gli appelli ai sentimenti, le lacrime e gli applausi non sono lo sfondo e il folclore dell’evento che incorona e lancia Harris verso la sfida finale con Donald Trump. Sono il centro e il contenuto dell’evento. Il presidente uscente ha cercato di ricucire lo strappo ideale che si è creato con la sua estromissione dalla corsa sotto il “fuoco amico”. I maggiorenti del partito, i media e i finanziatori non credevano in un bis dell’attuale capo della Casa Bianca e l’ha spinto a lato.

Una frattura umana che andava ricomposta in fretta – non c’erano soltanto i delusi e gli scettici di fronte alla nomination dell’anziano gaffeur ma anche coloro che ne avevano fiducia e non sono fan della sua vice – e un clima politico che andava ricostruito. C’è effervescenza intorno all’ex procuratrice generale della California che tenta di diventare la prima donna presidente, potrebbe però essere un entusiasmo dei militanti che non contagia la fetta decisiva dell’elettorato moderato. Ecco allora la spinta su quei toni patriottici e emozionali - la famiglia, l’amicizia, la dedizione, la lealtà. l’inclusione - che costruiscono il consenso più di programmi precisi e dettagliati.

I contenuti sono certo importanti, e sarebbe sbagliato fare l’elogio di un approccio populista e superficiale. Ma sarebbe miope non cogliere queste dinamiche che condizioneranno il risultato delle urne tanto o, addirittura, più di quello che i contendenti annunceranno in termini di strategia internazionale. Il pugno alzato di Trump dopo essere scampato di un soffio all’esecrabile attentato è ciò che galvanizza i suoi sostenitori. La capacità retorica sciorinata da Barack Obama nella notte è ciò che esalta il campo opposto.

Forse non è un caso che una parte della base più “arrabbiata” e movimentista sul web del fronte repubblicano in questi giorni stia criticando la campagna del tycoon per avere abbassato un po’ i toni di fronte al cambio di avversario. A fare la differenza sono meno i programmi e più la sensazione che si crei un “noi” coeso e combattivo, con una identità chiara e distinta, rispetto a “loro” cui non si possono fare concessioni. Si tratta di una logica tribale, nel senso letterale, ma sotto le fredde e razionali procedure della democrazia rimane questo magma che va incanalato nella giusta direzione.

E all’Ucraina che vede salire di intensità il conflitto, e al Medio Oriente che brucia con decine di migliaia di morti civili chi pensa? Cerchiamo di leggere tra le righe delle dichiarazioni: sappiamo che un leader democratico degli Usa continuerà sulle orme di Biden con l’internazionalismo e il multilateralismo, mentre Trump annuncia (anche se ciò non equivale a mettere in pratica) una svolta isolazionista. Il segretario di Stato americano Antony Blinken continua a tessere la tela di una tregua impossibile senza qualche improbabile concessione da parte di Benjamin Netanyahu il quale, a sua volta, guarda ormai più all’esito del 5 novembre che ai negoziati di oggi. In qualche modo, lo stesso vale per Kiev e Mosca, che forse tifano per candidati opposti, sebbene la scommessa di entrambi potrebbe essere sbagliata.

In definitiva, dobbiamo rassegnarci a essere spettatori di una partita che si gioca soprattutto sugli umori, gli amori e gli odii interni di un Paese che vede perfino cittadini e famiglie spostare la residenza in Stati più omogenei al loro orientamento partitico-ideologico e affida, in base a un vecchio sistema elettorale, la scelta spartiacque di un presidente al voto di poche regioni dove il risultato è ancora in bilico. Vedremo se Kamala Harris domani riuscirà a scaldare i cuori con il suo discorso di accettazione e come il suo rivale risponderà nelle settimane successive.

Non saranno però le promesse di sussidi o di tagli fiscali a guidare gli elettori (forse, nel bene o nel male, lo farà il tema divisivo e doloroso dell’aborto). Noi e loro. Noi o loro. Ci piaccia o meno, questa è la dinamica che deciderà l’esito. Da quell’esito, tuttavia, dipende, almeno in parte, l’evoluzione delle emergenze globali più impellenti (non dimentichiamo il clima, le migrazioni, gli obiettivi di sviluppo umano Onu) sui quali Harris e Trump hanno visioni divergenti. Dopo il momento dell’entusiasmo irrazionale, verrà l’ora delle scelte concrete. Ma solo dopo.

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