Archiviata l’era dei siparietti e delle piroette trumpiane, sembra che le relazioni tra Stati Uniti e Cina abbiano (re)imboccato la strada giusta. Una buona notizia per il mondo. Anche se la lettura del lungo vertice di lunedì ha toni e sfumature diverse, secondo i resoconti ufficiali distribuiti dalle due parti, è indubbio che il risultato sia stato più che positivo, ben aldilà delle pur basse aspettative. Anche se non c’è stato un comunicato finale congiunto, né siano stati raggiunti accordi specifici, il clima è stato quello che si confà a un incontro tra i leader di due superpotenze, come non se ne vedevano da tempo.
Certo, da un lato c’è un 'giovane' (68 anni) Xi Jinping, reduce dall’ennesima 'apoteosi' istituzionale che gli garantisce oramai l’incarico a vita, dall’altro l’anziano (79 anni) Joe Biden, il cui potere è costituzionalmente limitato e già da più parti è contestato in patria. Di questo i cinesi erano consapevoli e non hanno esitato ad approfittarne, tant’è che è comune ammissione che il vertice sia stato di fatto 'condotto' da Xi e che l’agenda, meticolosamente preparata, sia saltata sin dall’inizio, quando il presidente cinese ha salutato Biden con un affettuoso – ma non concordato e un po’ imbarazzante – «Ben ritrovato, vecchio amico». Nonostante gli sforzi del capo della Casa Bianca di affrontare argomenti concreti – come quello dei diritti umani –, Xi Jinping è riuscito a 'volare alto', incalzando Biden su dichiarazioni di principio. Il senso di responsabilità che le due superpotenze hanno nei confronti dei loro popoli e del Pianeta, la necessità di perseguire una concorrenza che però non sfoci in conflitto, il difficile equilibrio tra rispetto delle regole comuni, ricoscimento delle deroghe e, soprattutto, non interferenza. «Nessuno deve presumere che il proprio sistema sia il migliore, e tanto meno tentare di imporlo agli altri».
Anni luce dalle dottrine 'insurrezionali' di Pompeo, con l’ex segretario di Stato di Trump che andava sostenendo la necessità che il popolo cinese si ribellasse al Partito, giungendo a citare gli slogan contro il 'quartier generale' del presidente Mao. «La Repubblica popolare cinese, da quando esiste, non ha mai invaso né occupato un centimetro di terre altrui», ha sentenziato Xi, rivendicando la sovranità 'storica' su tutti i territori in qualche modo contestati: dal Tibet a Hong Kong, dallo Xinjiang a Taiwan. Un vero capolavoro diplomatico, che ha colto Biden di sorpresa e l’ha costretto, sulla questione più attuale e spinosa di Taiwan, a ripiegare sul solito 'status quo'.
Gli Usa mantengono il principio di una sola Cina e Pechino, pur ribadendo 'la storica inevitabilità' della riunificazione (sancita nella recente 'risoluzione' approvata dal Plenum dei giorni scorsi), si impegna a non imporre forzate accelerazioni. A patto, e su questo punto Xi Jinping è stato molto chiaro, «non venga superata la linea rossa», eventualità che costringerebbe la Cina a reagire in modo drastico. Anche sui temi economici e commerciali – quelli che più stanno a cuore ai due Paesi (e al mondo intero, visti gli effetti della globalizzazione) – sembra essere stata ancora una volta la Cina a prevalere. Pare passato una volta per tutte il 'doppio status': come membro a pieno titolo della Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, Pechino ha il dovere di adeguarsi e rispettare le regole in termini di libera concorrenza, investimenti e dazi.
Ma in virtù del fatto che il reddito pro capite cinese è ancora ridotto, a livello di un Paese in via di sviluppo, vanno concesse deroghe ed eccezioni. Un boccone amaro da digerire per il mondo industriale e finanziario americano (e di rimbalzo, europeo), ma per il momento queste sono le condizioni alle quali è possibile – e necessario – 'ripartire' nella «schietta», come viene definita nel comunicato ufficiale, competizione con il Dragone. Diritti umani? Libertà religiosa? Se ne è parlato, assicurano entrambe le parti. Ma nei comunicati nessuna traccia.