Forse era scritto che a Napoli, patria di ogni populismo, dovesse toccare anche quello della peggior specie, come si è visto sabato pomeriggio, epicentro Fuorigrotta, la zona dello stadio, messa a ferro e a fuoco da una sgangherata accozzaglia di manifestanti ordinari, centri sociali, assessori comunali, nostalgici borbonici, con la micidiale aggiunta di black-bloc a completare, a modo loro, l’opera. (Si potrebbe parlare di operetta, ma di fronte a una ventina di feriti e a un quartiere trasformato in campo di battaglia proprio non si può).
Mai una stretta era stata così implacabile su una città già allo stremo per i suoi molti mali: di populismi Napoli ne ha conosciuti, e subiti, in quantità industriali, e il fatto che sia sopravvissuta a ognuno di essi non tranquillizza di fronte all’assalto concentrico e di tipo nuovo portato da un deputato europeo e leader di partito, Matteo Salvini, in cerca di terre di nuove conquiste e da un sindaco, Luigi De Magistris, che è riuscito nell’impresa pressoché unica di convogliare sul leader della Lega solidarietà di stampo, nientemeno, libertarie. (La democrazia è quella cosa per cui libertà e diritto di parola non si possono negare a nessuno, e, nel caso specifico, l’accoglienza va assicurata anche a chi vi è allergico).
La gravità di quanto accaduto va ben oltre il bilancio, pur grave e intollerabile, dei danni alle persone e alle cose, in una giornata di autentica follia urbana. Per Napoli c’è il senso, già troppe volte conosciuto, della sconfitta, ma non solo: ad allarmare è ora quel sintomo di resa che sembra essersi insediato nel cuore delle istituzioni, abbandonate e prede esse stesse di un generico e falso ossequio al 'popolo' artificiosamente aggregato a non si sa quale causa. S’intravvede, dietro il vuoto, non altro che il profilo di un movimentismo indistinto, di regole messe da parte o barattate alla bell’e meglio, un sovvertimento senza capo né coda che tiene lontana la prospettiva di una benché minima forma di progetto per una città che ha certo le sue peculiarità identificabili, peraltro, con le sue ricchezze - ma che è imperdonabile usare a sue spese e a suo danno. La morsa di un arruffato populismo, con bollino pseudo-istituzionale può davvero rappresentare il colpo finale per Napoli. Se esiste al mondo una città che ha bisogno dei suoi organismi rappresentativi, di una loro reale incidenza sul territorio, di una vicinanza non effimera alle esigenze di una comunità chiamata più di altre alla riscoperta del bene comune, questa è la Napoli chiamata a fronteggiare l’invadenza sempre più sfrontata della malavita, la Napoli che non può farcela da sola; la Napoli che non ha bisogno di commiserazioni, ma neppure di chi si sottrae a indicare la strada di inevitabili responsabilità.
E qui il ruolo delle istituzioni è fondamentale, e si spinge anche alle forme di contrasto democratico nei confronti di chi è in cerca di nuovi, seppure improbabili, spazi elettorali. Non possono esistere scorciatoie lungo strade come queste. Anzi proprio le istituzioni dovrebbero tener lontano il rischio che qualche scappatoia sia invece possibile, e che basti, per esempio, scendere nelle piazze per dimostrare una più stretta vicinanza con i cittadini. È più facile che da questo falso versante si faccia strada invece un populismo di ritorno, capace di indebolire il valore della rappresentanza. Non si tratta di un rischio da poco: i deficit delle istituzioni sono più gravi ed evidenti proprio laddove la loro popolarità non è al massimo. È il caso, manco a dirlo, di Napoli dove per troppo tempo e troppo spesso sono state considerate come una controparte. Voltare pagina è necessario, ma pensare di farlo con i modi spicci e sbrigativi di un’adesione alla piazza, è una strada senza uscita.