Per uno strano paradosso della storia l’Unione Europea, nata sulle macerie della guerra, è messa nel mirino proprio dai tre Paesi che hanno vinto il secondo conflitto mondiale e che più di altri hanno dato il loro contributo alla sconfitta del nazismo. Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna con motivi a volte agli antipodi, ma in questa fase della storia concentrici, stanno mettendo alle corde proprio quello spazio di scambio e di pace condivisa che hanno direttamente o indirettamente contribuito a creare.
L’America per ben due volte è intervenuta in maniera decisiva sul suolo europeo e dopo la seconda guerra mondiale con il Piano Marshall ha garantito le risorse fondamentali agli sconfitti per rialzarsi in piedi. Noi italiani sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Allo stesso modo, con la creazione della cortina di ferro e la divisione delle Germanie almeno fino al 1989, gli Usa hanno di fatto promosso il modello di sviluppo del "mercato unico" europeo occidentale come antagonista al blocco sovietico.
Con la caduta del Muro di Berlino, cui si può far coincidere l’inizio della globalizzazione, tutto è però diventato più complicato, soprattutto quando alla fine delle frontiere commerciali si è aggiunta la nascita dell’euro. I comportamenti dell’amministrazione di Donald Trump, molto spesso contraddittorio nelle sue uscite come nel caso degli attacchi alla politica della Bce poi tramutati in elogi sperticati al suo presidente, Mario Draghi, sembrano più che altro dettati dalla paura degli americani di aver permesso il concepimento degli Stati Uniti d’Europa e l’organizzarsi del mercato più ricco al mondo, di fatto concorrente di quello d’oltreoceano, per di più con una valuta comune forte che ha messo in crisi il ruolo del dollaro come valuta di riferimento.
Insomma, negli Usa attuali, archiviata l’idea di una grande intesa per un mercato comune dell’Atlantico del Nord, sembrano spaventati dall’aver creato un Frankenstein (quasi) perfettamente funzionante, che non sono più in grado di controllare né di insidiare, se non forse con i nuovi campioni dell’economia digitale, che però alla fine poco sono influenzabili anche da Washington.
Quale sia invece l’atteggiamento della Russia, che prima ha diffuso l’idea socialista di una società diversa e più giusta e poi ha pagato un prezzo enorme di vite umane per sconfiggere fin nel suo bunker la follia di Hitler e permettere alla democrazia di insediarsi di nuovo in tutti i Paesi del Vecchio Continente, lo ha spiegato perfettamente Vladimir Putin durante la sua recente visita in Italia con un intervento su "la Stampa".
Secondo il capo del Cremlino, le discussioni sul nuovo ordine economico mondiale rimarranno aspirazioni buone ma vuote se non si riporteranno al centro concetti quali la sovranità e il diritto incondizionato di ogni Paese al proprio percorso di sviluppo. L’analisi di Putin, in questo caso, coincide con quella di Trump. Per risolvere i problemi che vengono dalla globalizzazione e dalla crescita di nuovi mercati è deleteria l’imposizione di un solo e unico vero canone, quell’Unione Europea che – sostiene lo "zar" – ricorderebbe molto da vicino l’Unione Sovietica. Serve, piuttosto, l’armonizzazione degli interessi economici nazionali con l’esaltazione dei rapporti bilaterali. In due parole, il nazionalismo dialogante.
Proprio quello che auspicano gli inglesi, ancora ammaccati dalla Brexit e in cerca di un nuovo standard che permetta loro di dare corso all’esito del referendum del 2016 che ha visto il prevalere del Leave anti-Ue.
L'atteggiamento britannico, che rifiuta di adeguarsi alle regole europee in virtù di una granitica indipendenza che non tiene conto però dei benefici che la finanza d’Oltremanica ha tratto dalla partecipazione all’Unione Europea, sembra soprattutto calpestare la ragione. Winston Churchill, l’uomo europeo cui più di tutti l’odierna Ue deve la sua nascita, il premiersoldato che resistette ai bombardamenti tedeschi e, poi, volle lo sbarco in Normandia, ammise che per garantire la pace su quella terra liberata sarebbe servita la federazione degli Stati, al cui embrionale prototipo aderì la Gran Bretagna negli anni Settanta, anche qui con una partecipatissima consultazione popolare. Pensare che siano però comportamenti soltanto politici quelli dei tre Paesi vincitori, padri putativi dell’Unione, sarebbe sbagliato.
Dietro c’è la presa di coscienza che la globalizzazione è a un passaggio davvero critico. Lo choc del 2008 ha esacerbato del tutto gli squilibri, e cresce di più chi è fuori dalle vecchie logiche commerciali. La quota del peso delle economie del G7 sul resto del mondo è scesa dal 46% al 30% e anche nella Ue sta passando l’idea che per creare benessere non servano più politiche comuni. Idea azzardata. Ma che aiuta a spiegare perché il fascino 'autonomista' di Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna può contagiare anche altri Stati. Soprattutto se da Bruxelles in giù continueremo ad assistere inermi alla crisi di un modello condiviso, aggredito commercialmente da chi ha salvato l’Europa dal male assoluto ma ora pensa che sia molto meglio dialogare con le piccole patrie e far saltare la straordinaria costruzione del mercato unico e persino l’Europa dei cittadini.
Senza una reazione, una nuova Yalta politica ed economica, con l’Europa coprotagonista, che rilanci il cammino di integrazione e ristabilisca gli equilibri nei rapporti di forza tra noi e le vecchie 'grandi potenze' (più la Cina). Altrimenti è probabile che in tanti, presto o tardi, saranno tentati dal lasciare la fede europeista per coltivare un progetto nazionale. E sarebbe un destino - come sostiene da tempo questo giornale - da nani alla corte dei giganti.