Attorno alla questione dei migranti si va intessendo la trama di un romanzo kafkiano. Assistiamo all’arrivo di disperati da tutto il mondo, e le morti in mare che si susseguono ogni giorno interpellano la coscienza di ciascuno. Nessuno di noi, pero, è in grado di affrontare e tanto meno di risolvere un problema di tale portata. Ecco allora la risposta tipica di una società avanzata: soldi, mezzi, organizzazione. In questo modo si produce un duplice effetto: da un lato l’azione si potenzia enormemente, permettendo di fare cose irraggiungibili dal singolo.
Dall’altro, la responsabilità individuale viene annichilita, secondo quell’effetto di «sgravio» di cui ha parlato il filosofo Arnold Gehlen. Impossibilitati ad agire, scarichiamo sulle istituzioni l’onere di agire per conto nostro. Diventiamo spettatori passivi. Col rischio che la nostra coscienza morale si indebolisca finendo fino a spegnersi. Il problema si complica perché il piano dei mezzi non è in grado di affrontare a dovere una vicenda come quella delle migrazioni. In gioco ci sono questioni che non sono solo tecniche. Ma umane e politiche.
Questioni che riguardano i rapporti internazionali (e in modo specifico la natura della Unione Europea) e che toccano l’idea stessa di cittadinanza: cioè le condizioni alle quali si diventa cittadini, parte effettiva di un determinato Paese. Al fondo, c’è il tipo di comunità politica che vogliamo essere. E il problema è che una comunità politica non è un’astrazione. Essa vive di leggi e istituzioni, ma si regge su una cultura (cioè modi pensare e pratiche di azione) che persone e gruppi praticano nella loro vita quotidiana. E che le istituzioni poi riconoscono, rafforzano e in qualche modo codificano. È illusorio pensare che l’inclusione possa essere realizzata limitandosi all’impiego (necessario) di strumenti tecnici, così come è evidente nessun progetto politico può reggersi senza il coinvolgimento e la maturazione delle persone, dei gruppi, delle comunità.
Le leggi hanno sempre uno spirito che deve esse radicato nella vita delle persone concrete. E qui si torna al punto di partenza, cioè alla coscienza individuale e alla nostra capacità di mobilitarci di fronte a un problema storico quale quello migratorio. Dove porta tutto questo discorso? In questi anni, papa Francesco non ha mai smesso di richiamare i cristiani – e tutti gli uomini di buona volontà – a essere responsabili di fronte a quello che sta accadendo sulle frontiere tra i Paesi ricchi e Paesi poveri. Il richiamo è fondamentale: nessuno può risolvere da solo il problema, ma la nostra coscienza morale non può rimanere insensibile a quando accade vicino a noi. Il Papa ci invita dunque a non spezzare il legame che tra la responsabilità personale, l’impiego di mezzi economici e tecnici, la ricerca di soluzioni politiche. Non si troverà una via d’uscita positiva alla questione storica che abbiamo di fronte – la popolazione dell’Africa è destinata raddoppiare nel giro di pochi decenni – se non cercheremo di far maturare insieme questi tre piani della nostra vita insieme.
Ecco dunque il ruolo delle comunità cristiane: quello di essere laboratorio attivo per pratiche di ospitalità diffusa, così da accompagnare le istituzioni a trovare soluzioni basate non solo sull’aumento delle risorse impiegate, ma anche sulla valorizzazione del grande potenziale di solidarietà presente nei nostri cuori e sui nostri territori. Dando così corpo al desiderio di tanti di non essere spettatori passivi di fronte a uno dei drammi del nostro tempo. Sia chiaro: l’enorme impatto storico delle migrazioni in atto – destinate a durare – ci farà tutti diversi. Può darsi che saremo peggiori, se lasceremo crescere il seme di quell’odio che nella storia ha sempre finito per alimentare le forme più furiose di violenza.
Ma può anche darsi che diventeremo migliori. Soprattutto se ci faremo stimolare dalla domanda che questo grande fenomeno pone a tutti e a ciascuno: quale tipo di convivenza può essere concretamente realizzabile in un mondo che si fa sempre più piccolo? È questa la posta in gioco: maturare un po’ per volta una coscienza della nostra umanità, capace di dar luogo a nuove istituzioni (esempio, nuove legislazioni sulla cittadinanza) che, senza sposare i miti del cosmopolitismo astratto, siano però capaci di lasciarsi alle spalle i miti di un nazionalismo che, per quanto risorgente, non è all’altezza delle sfide che la nostra umanità deve affrontare. Non si tratta di risolvere un problema. Si tratta di fare i primi passi di un processo che ci porterà lontano: come sempre nella storia (personale e collettiva), è solo nella fatica di attraversare le sfide che abbiamo davanti che possiamo davvero maturare e sperare.