Decreti (in)sicurezza, punto e a capo. Era ora. Comincia finalmente a finire l’imperio autolesionista, inutilmente aspro e persino crudele di quella che, su questa prima pagina, avevamo denunciato come «la Legge della strada». Cioè dell’insieme eterogeneo eppure calcolato di regole, di chiusure e di ostacoli fatto assemblare dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini per mettere deliberatamente e letteralmente in mezzo a una strada decine e decine di migliaia di persone di origine straniera private di colpo di protezione umanitaria e luoghi di ricovero e inclusione, per ricacciare nell’irregolarità molti di coloro che dall’irregolarità erano venuti fuori, per tenere ancora più lontani dalla nostra comune cittadinanza uomini e donne, ragazze e ragazzi radicati in Italia eppure trattati ostinatamente e ostentatamente da estranei. Una miscela di ingiustizia e di furbizia elettoralistica che il primo governo Conte un po’ subì, un po’ accettò di buon grado e troppo poco cercò di mitigare.
Comincia a finire, perché se non è vero che la sicurezza si può fare a colpi di decreti (e decreti, come quelli di cui sopra, che la regolarità e la sicurezza l’hanno invece diminuita per stranieri e italiani), è invece vero, verissimo, che la legalità e l’inclusione non si agevolano soltanto con necessarissime norme lungimiranti, e perciò sensate e rispettose di tutti, ma anche e persino di più attraverso un cambio di atteggiamento e di clima che comincia dalle parole con cui si alimenta e conduce il dibattito pubblico. E qui, come s’è visto e sentito anche ieri, purtroppo non ci siamo. Ha una faccia ancora tumefatta l’Italia della politica (e non solo della politica) che dibatte della vita degli immigrati, dei rifugiati e dei richiedenti asilo dimostrando di considerarli «di minor valore, meno importanti, meno umani» – così denuncia nell’enciclica Fratelli tutti papa Francesco, guardando a un mondo di sofferenze e di tradimenti dei grandi valori comuni. Ha una faccia troppo spesso civilmente irriconoscibile a causa delle parole-sberla, delle parole-pugno, delle parole-bastone che vengono usate e persino scagliate sulle vite dei migranti (descritti ormai sempre così, come persone 'in movimento', persino quando sono immigrati da anni, persino da decenni) e sulla buona fede degli italiani.
Una vergogna che finirà solo quando ricominceremo a vergognarci di non saperci vergognare dell’indicibile e dell’indecente e quando certe complicità – comprese quelle di un’informazione manipolata e aggressiva – non saranno state sbaragliate da razionalità e umanità. Che sono alleate e radicalmente alternative all’odio sentimentale e muscolare che eccita le paure e gonfia gli antagonismi xenofobi e resuscita l’intollerabile idiozia razzista.
La strada non è in discesa. Se c’è voluto un anno, e se sono passati quasi due mesi dalla conclusione della nuova scrittura delle norme da parte di Luciana Lamorgese, che con pacatezza e solidità regge oggi il Ministero dell’Interno, per arrivare a cambiare gran parte delle parole (e delle conseguenze) della «legge della strada» impostata e imposta tra l’autunno del 2018 e l’estate del 2019, è perché il livello di intossicazione è alto, le intimidazioni pesano, restano aperti i problemi della clandestinizzazione dei flussi dei «migranti economici» dal Sud del mondo (soprattutto dall’Africa) e sono sempre schierati gli egoismi di quei Paesi europei che in nome di una 'sovranità' malata fanno fronte comune con pezzi della politica italiana per bloccare, contro l’interesse stesso dell’Italia e di altri Paesi mediterranei, una gestione comunitaria delle richieste d’asilo alla Ue.
Ma un passo avanti è stato fatto, finalmente. Il primo passo, per archiviare gli assurdi anni della 'strategia della tensione' sulla pelle dei poveri e degli spaventati. Mai più così. Mai più.
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